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Ma cos'è questa crisi

category internazionale | economia | opinione / analisi author Sunday September 21, 2008 17:32author by Pier Francesco Zarcone - FdCA (a titolo personale) Report this post to the editors

Negli Stati Uniti i problemi derivanti dalla crisi dei crediti ipotecari ad alto rischio ("subprime") hanno finora comportato un costo per le finanze statali (quindi per le tasche dei contribuenti), tra iniezioni di liquidità e interventi di salvataggio diretto (alla faccia dei dogmi neoliberisti!) di almeno 900.000 milioni di dollari (chiedo scusa, ma non so scrivere la cifra in numeri); nell'Unione Europea l'esposizione diretta di istituti bancari con la fallita "Lehman Brothers", attraverso l'acquisto di prodotti complessi ad alto rischio creditizio, si aggira sui 3.350 milioni di dollari...


MA COS'È QUESTA CRISI?

di Pier Francesco Zarcone


Parliamo un po' della crisi finanziaria che attualmente sconquassa il centro stesso di quel "felice mondo capitalista" che solo gli ultimi "irriducibili" negano essere il migliore dei mondi possibili. Oggi, sul lisboeta "Diario de Notícias", un commentatore – dopo essere partito con tutta umiltà dall'assunto che laddove i semplici non sono in grado di capire intervengono a spiegare gli specialisti – ha dovuto concludere di non aver trovato idee e risposte molto chiare neppure da questi ultimi. Può darsi che ciò dipenda da situazioni di eccessiva compenetrazione con le fenomenologie del capitale, tali da far ricordare il vecchio, ma sempre valido, detto anglosassone per cui gli stolti a causa degli alberi non riescono a vedere il bosco.

Tuttavia se si guarda dall'esterno, e senza condizionamenti, a ciò che sta accadendo, la situazione può essere spiegata in modo abbastanza semplice.

Premettendo però l'enormità delle somme in ballo: negli Stati Uniti i problemi derivanti dalla crisi dei crediti ipotecari ad alto rischio ("subprime") hanno finora comportato un costo per le finanze statali (quindi per le tasche dei contribuenti), tra iniezioni di liquidità e interventi di salvataggio diretto (alla faccia dei dogmi neoliberisti!) di almeno 900.000 milioni di dollari (chiedo scusa, ma non so scrivere la cifra in numeri); nell'Unione Europea l'esposizione diretta di istituti bancari con la fallita "Lehman Brothers", attraverso l'acquisto di prodotti complessi ad alto rischio creditizio, si aggira sui 3.350 milioni di dollari; per la Svizzera il solo fallimento "Lehman Brothers" incide per 250 milioni di dollari; a stare peggio sono gli istitui bancari asiatici, con particolare riguardo a quelli giapponesi, esposti finora per la bellezza di 4.000 milioni di dollari. E lasciamo perdere i milioni e milioni (in realtà più virtuali che reali) bruciati nelle conseguenti cadute dei mercati borsistici.

Ancora, però, il cosiddetto "effetto domino" non si è manifestato appieno. Quando si potranno fare i conti definitivi si avranno cifre da capogiro. Il che ci porta al nocciolo della crisi odierna. Se è vero che il processo di finanziarizzazione dell'economia era già ben avviato quando Lenin scrisse sull'imperialismo, da un po' di tempo esso ha assunto connotazioni quantitative e qualitative di ben maggiore rilevanza. Globalizzandosi - come si suole dire, a volte con stolto compiacimento, giacché sul fatto che questa finanza globalizzata abbia l'intrinseca capacità di provocare disastri immani da un pezzo è stato detto e scritto innanzi tutto da economisti al di fuori "dal coro". Oggi anche marpioni della politica, come Tremonti, cominciano a sollevare dubbi e perplessità sulla bontà del sistema, cominciando a dire cose che la pseudo-sinistra dei forchettoni rossi avrebbe dovuto gridare a ogni angolo da molto più tempo. Ma tant'è.

In buona sostanza, il citato effetto domino – per cui la crisi di un colosso finanziario si ripercuote su altri istituti affini - nasce da un tipo di compravendite effettuate dai principali soggetti del mercato finanziario, che si sono procurati capitali vendendo, mediante strumenti complessi, crediti ad altissimo rischio ad altri istituti finanziari. Questi ultimi hanno rivenduto ad altri, e così via fino a che i relativi pezzi di carta non sono finiti anche nelle tasche dei risparmiatori singoli. Di modo che, se la mia banca ha comprato un titolo di credito della "Lehman Brothers", per esempio, e poi mi ha venduto fondi con titoli della "Lehman Brothers" siamo nei guai sia la mia banca sia il sottoscritto, soprattutto se ho commesso il fatale errore di non efettuare per i miei risparmi investimenti differenziati. Il caso "Parmalat" insegna. Quando poi nel fenomeno sono implicati i giganti delle assicurazioni lì, per la catena delle controassicurazioni di cui sono parte altri soggetti del settore, la crisi è idonea ad assumere effetti moltiplicatori devastanti. Una delle componenti del disastro consiste nella follia acquisitiva di denaro per cui grandi istituti finanziari si sono trovati esposti ben al di là del loro capitale. Da tutto questo pasticcio deriva l'inevitabilità, in costanza della crisi, di una forte riduzione del credito, con pesanti ricadute per l'economia produttiva e per l'occupazione. Infatti, oggi le banche hanno una forte e vitale necessità di liquido, talché il credito interbancario sarà più difficile e più caro, con tanti auguri poi per l'anonimo cittadino che abbia bisogno di finanziamenti.

Finanziarizzazione dell'economia viene a indicare che ruolo, incidenza e dinamica delle attività meramente finanziarie sul complesso delle attività di un sistema economico oppure su una sua grandezza, come la ricchezza nazionale, o su un suo flusso, come il prodotto interno lordo (PIL) hanno ormai assunto la predominanza. Si badi bene che la finanziarizzazione è diventata parte rilevante anche dell'attività di singole imprese di produzione, attraverso la spendita di tempo, denaro e lavoro nell'acquisto, gestione e vendita di partecipazioni al capitale di altre imprese o di titoli creditizi di esse. Il tutto facilitato dall'ormai diffusa mancanza di regole sulle attività del mercato finanziario e dalla maggiore disponibilità di mezzi telematici ed elettronici. Oggi, quanto maggiore è il grado di sviluppo di un paese capitalista, tanto maggiore è il peso delle rendite finanziarie sul Prodotto Interno Lordo. L'economia finanziaria consente l'acquisizione di profitti monetari mediante l'attività di compravendita di titoli e di prodotti finanziari (essenzialmente quote di capitale e crediti). Il lucro è dato dalla loro movimentazione sul mercato. Il risparmiatore che investe in questi prodotti e lì si ferma, come se avesse acquistato Bot o Buoni Postali Fruttiferi, non sa quello che si perde e quello che rischia, in quanto lasciando giacere – senza coglierli – i guadagni (quando ci siano) si espone a perderli del tutto o quasi quando le "bolle" scoppiano.

Guglielmo Forges Davanzati su "Liberazione" del 13.06.2008 (prescindiamo dalla testata che ha ospitato l'articolo) ha giustamente messo in evidenza che:

«Già Marx aveva osservato che – quando ciò è possibile – i capitalisti trovano spesso conveniente utilizzare i loro profitti per realizzare guadagni monetari nei mercati finanziari. Il meccanismo che rende oggi possibile, e conveniente, la dislocazione di risorse da usi produttivi a usi improduttivi è duplice: da un lato, le liberalizzazioni rendono quei mercati facilmente contendibili, consentendo quindi l'ingresso di nuovi operatori; dall'altro, perché tale dislocazione sia attuabile, i capitalisti devono disporre di fondi sufficienti per l'acquisto di prodotti finanziari. Lo scenario nel quale ci muoviamo da oltre un ventennio, infatti, è precisamente questo: alti profitti, alte rendite finanziarie, liberalizzazioni. La finanziarizzazione accresce le passività finanziarie, soprattutto a danno delle imprese più piccole, strutturalmente più fragili, collocate nelle aree periferiche dello sviluppo capitalistico. Un numero abbastanza elevato di queste imprese, quelle che non possono reagire all'aumento dei costi aumentando i prezzi, né aumentando la produttività del lavoro e neppure comprimendo i salari, falliscono. Per restare al solo ambito nazionale, a riguardo, l'Istat registra al 2004 – ultimo anno di rilevazione disponibile - "tassi di sopravvivenza" di imprese nate nel 1999 pari a circa il 60% nel Nord (Nord-Est e Nord-Ovest) e a circa il 51% nel Sud e nelle Isole. Il fallimento di un numero significativo di imprese comporta l'aumento delle quote di mercato di imprese di più grandi dimensioni, strutturalmente più forti, localizzate nelle aree centrali dello sviluppo capitalistico. Anche per questa via, la finanziarizzazione si associa alla concentrazione dei capitali industriali, dal momento che crea le condizioni per processi di acquisizione e fusione, o comunque per un ampliamento delle quote di mercato delle imprese strutturalmente più forti. Ciò accade sia sotto forma di crescenti dimensioni d'impresa, sia sotto forma di crescente concentrazione geografica. La concentrazione, a sua volta, produce un duplice effetto. Da un lato, generando posizioni monopolistiche, determina processi inflazionistici, che comprimono i salari reali. Dall'altro, riducendo l'intensità competitiva, riduce il livello di produzione e di occupazione. Si è dunque in presenza di una spirale viziosa, stando alla quale la liberalizzazione dei mercati finanziari tende a generare l'aumento delle rendite finanziarie, che finisce per gravare sul capitale produttivo come una forma occulta di tassazione. La quale viene, a sua volta, trasferita sul lavoro, generando cali di occupazione e dei salari reali, in una condizione – quella attuale – nella quale la capacità di resistenza del sindacato è ridotta ai minimi termini».
Quando c'è il tempo delle vacche grasse e ci si sa muovere sul mercato finanziario la possibilità di "fare soldi" è effettiva ma temporanea, in quanto si tratta di soldi virtuali, alla cui base non c'è la produzione di alcun bene, né d'uso né di scambio. E quando in periodo di crisi i mass-media urlano ai quattro venti che sono stati bruciati X miliardi, c'è solo da dire che essi sono tornati a quel nulla che li aveva prodotti. Si pensi al gioco speculativo sui titoli di un'impresa che si traduce in aumento del loro prezzo di mercato indipendentemente dall'effettivo stato di salute economica e produttiva dell'impresa stessa. Al riguardo, Luciano Vasapollo ("Proposte di dibattito sui processi di trasformazione dell'economia e della società", nella pagina web ../www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=5) ha messo in evidenza la realtà di questa finanziarizzazione globalizzata:
«(...) si continuano a realizzare profitti senza fatica, creando rendite finanziarie e di posizione che, se per l'economia del Paese si traducono in una illusione di ricchezza distruggendo efficienza, competitività e disarticolando i meccanismi del tessuto produttivo, nel contempo diventano non solo fonti di ricchezza facile per gli investitori, ma elementi reddituali e patrimoniali a bassa tassazione, se non addirittura molto spesso fonte stessa di completa evasione ed elusione fiscale. (...) Se ci si attiene alle impostazioni dottrinali risulta che il sistema economico debba essere strettamente connesso al sistema finanziario e, di conseguenza, i mercati dei capitali non dovrebbero avere una vita autonoma separata dal contesto generale economico-sociale, in quanto costituiscono nelle dinamiche dello sviluppo capitalistico una sorta di termometro della credibilità e del grado di efficienza dei sistemi-paese e del sistema capitalistico internazionale nel suo complesso. Se si osserva quanto quotidianamente avviene nella realtà dei mercati si ha l'immediata consapevolezza che ancora una volta gli schemi della dottrina più comuni sono smentiti. Le leggi del capitalismo non hanno una morale; gli investimenti finanziari seguono percorsi speculativi con dinamiche proprie che esulano dal quadro economico-politico, rincorrendo la maggiore remunerazione e la legge ferrea dei profitti a tutti i costi, indebolendo l'economia reale. Non esiste una motivazione scientifica sull'andamento degli investimenti finanziari; tutto è demandato ad una cieca fiducia nelle leggi di mercato, meccanismi che puntano esclusivamente alle migliori condizioni di redditività, provocando alti costi sociali. Molto spesso si assiste a forti divaricazioni tra andamento dell'economia reale e dimensione del mercato dei capitali; basti pensare che in Inghilterra dove si ha il più alto tasso di capitalizzazione borsistica si realizzano dati sconfortanti per l'economia reale e, viceversa, la Germania, che evidenzia una forte egemonia economica sicuramente a livello continentale, realizza invece scarsissimi risultati in termini di sviluppo del mercato borsistico. Da ciò si deduce che non necessariamente una forte capitalizzazione della Borsa assicura un efficiente e forte sviluppo dell'economia reale; cioè frequentemente la "bisca finanziaria" elargisce premi a quelle imprese capaci di tagliare l'occupazione, di diminuire i salari reali distribuiti ai lavoratori, di incrementare al massimo la flessibilità e la mobilità dei lavoratori e della loro retribuzione. Siamo, quindi, in un contesto di capitalismo soprattutto a connotati finanziari, un capitalismo, senza leggi, spesso anzi fuori legge capace di giustificare tutto con le ipotetiche, illusorie capacità di autoregolamentazione del mercato. Con la finanziarizzazione dell'economia, esplosa già al tempo delle crisi energetiche degli anni '70, il capitalismo internazionale si è posto in un contesto di mutazione con carattere sempre più degenerativo, nell'illusione che l'aumento dei mezzi di pagamento cartacei ed elettronici possa essere in grado di creare ricchezza reale. Tutto il sistema della globalizzazione capitalistica è entrato in fibrillazione. Si realizza così il legame indissolubile fra globalizzazione e finanziarizzazione, dimostrando l'enorme fragilità di un modello capitalistico basato sulla speculazione finanziaria che sempre più si distanzia dall'effettivo valore dell'economia reale. Tant'è che ora anche coloro che si sono contraddistinti come i maggiori fautori del liberismo selvaggio e del mercato non regolamentato hanno dei ripensamenti ed invitano a rivedere il ruolo dello Stato-Impresa per restituirgli un compito normativo di regolatore, rafforzando anche i compiti delle autorità di vigilanza. È notizia di questi ultimi giorni che i vari governi asiatici, in particolare quello giapponese, stanno accorrendo a soccorso del sistema creditizio e finanziario, anche per il salvataggio di banche sommerse da crediti inesigibili derivanti dagli effetti del rigonfiamento dell'economia dei primi anni '90. (...) Questo è il vero significato della globalizzazione, una globalizzazione dei mercati finanziari in cui ha buon gioco solo la libertà assoluta dei movimenti di capitale a danno del lavoro, mentre i movimenti delle persone e delle merci continuano ad essere sottoposti a politiche protezioniste spesso a connotati razziali. Il movimento dei capitali in chiave globale è un fenomeno che ha assunto caratteri di irreversibilità a danno dello sviluppo dell'economia reale, concentrando ricchezza in un numero sempre minore di soggetti, aumentando le aree di povertà nel pianeta, i livelli e gradi di emarginazione, producendo attività estranee e contrarie all'utilità sociale collettiva. I veri risultati emergono chiaramente: fare finanza speculativa significa esportare ovunque un capitalismo finanziario che attacca ogni forma di solidarismo in nome dell'individualismo, del darwinismo economico-sociale, creando idiosincrasia per tutto ciò che è pubblico, per tutto ciò che significa relazioni sociali a contenuto valoriale non misurato attraverso la moneta».
A questo punto concludo con una considerazione etico-giuridica. Le legislazioni degli Stati di più antica e consolidata cultura del diritto sottopongono a severi limitazioni il gioco d'azzardo, che è tale quando il fine di lucro coesiste con la totale, o quasi, aleatorietà della vincita o della perdita. Ci si potrebbe chiedere: "ma che gli frega allo Stato del gioco d'azzardo"? La risposta dei sacri testi giuridici è che lo Stato ha un dovere solidaristico verso i cittadini, che nella specie viene attivato dai risvolti spesso tragici del gioco d'azzardo, capaci di arrivare al dissolvimento di interi patrimoni; per non parlare della potenzialità criminogena. Benissimo. Che cosa c'è di diverso rispetto ai "subprime" e affini? Se metto su una bisca clandestina, rischio la galera; se emetto "subprime" no. Solo se fallisco ho dei problemi, ma se sono stato furbo alle Cayman mi aspetta il gruzzolo. A mano a mano che il gioco del capitale si fa serio vale il vecchio detto: "se uccido una persona sono un assassino; se ne uccido dieci, un sanguinario criminale; se ne uccido a migliaia, un fondatore di imperi". Finché il mondo va così...

Il fatto è che la "gente", di cui tanto parlano i berlusconiani e affini (anche della cosidetta "sinistra"), è di memoria corta e inoltre assai poco informata sulle cose serie, perché cosa significhi la mancanza di regole e controlli sull'attività degli istituti di credito, e a cosa porti l'irresponsabilità di questi ultimi, per il piccolo e medio risparmiatore italico non cè stato solo il citato "caso Parmalat". Quanti ancora piangono per gli investimenti in pezzi di carta fatti in Argentina? Ma costoro sanno cosa è successo per poi arrivare a quella catastrofe? Ebbene nella terra del tango, del churrasco e delle violente passioni è accaduto quanto segue, sottolinenando che non si tratta di una barzelletta. Anzi, questa "realtà romanzesca" è molto interessante. Durante i 5 anni della dittatura del generale Videla il paese entrò nella "felice" dimensione del neoliberalismo, e per farla breve si puntò a un'intensa fianziarizzazione dell'economia a tutto scapito del settore produttivo. I tassi di interesse furono liberalizzati, e la capacità di erogare crediti da parte delle banche venne a dipendere solo dalla loro capacità di captare depositi. A quest'ultimo fine le banche elevarono i tassi di interesse senza alcun senso del reale e irresponsabilmente.

Quando a dicembre del 1978 il governo decise la svalutazione del peso argentino, per non bloccare l'afflusso di capitali finanziari i tassi di interesse dovettero collocarsi ben al di sopra del ritmo della svalutazione. Questa è, per sommi capi, la premessa. Nell'80 fallì una delle principali banche private, e per frenare la spinta all'uscita dei capitali esteri, si dette incremento alla politica di indebitamento (bancario e statale) ma, aggravandosi la situazione, si decise (auspice il famigerato Domingo Felipe Cavallo, all'epoca presidente del Banco Central) una vera e propria statalizzazione del debito privato. Il governo dispose che il debito crescesse in base a un tasso regolato di molto inferiore all'inflazione, in modo da diminuirne ilvalore reale; e inoltre decise di scambiare il debito degli istituti di credito privati con l'erogazione di titoli pubblici al minor prezzo risultante dal tasso regolato. Così fu lo Stato argentino a diventare debitore dei creditori esteri. In buona sostanza – ed ecco come il pasticcio ha poi divorato tanti piccoli e medi risparmi privati – agli istituti indebitati verso l'estero (cioè verso grandi compagnie finanziarie straniere) lo Stato concedeva, a fronte del pagamento di una somma svalutata (e quindi di gran lunga inferiore al debito accumulato), titoli del debito pubblico in dollari affinché venissero dati in pagamento ai creditori esteri che poi, ovviamente, li trasferivano sulla loro clientela di risparmiatori. Che poi persero quasi tutto, o addirittura tutto.

Risultano sempre valide sia la visione della capacità criminale e criminogena dello Stato, sia il problema posto retoricamente da Brecht: "è più criminale fondare una banca o assaltarne una?".

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