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Lettera aperta al movimento lgt antifascista e al movimento antifascista tutto

category italia / svizzera | antifascismo | altra stampa libertaria author Friday May 23, 2008 04:34author by Graziella Bertozzoauthor email graziellabertozzo at libero dot it

Il nostro paese sta accelerando la corsa verso una compiuta forma di fascismo

Oggi in Italia c’è bisogno di dire altro dal “siamo tutti uguali”… Uguali a chi? Alla maggioranza? No, io non sono uguale, anche se a volte rischio di esserlo: io non mi voglio girare dall’altra parte, la voglio guardare in faccia quella trans della foto. Voglio riconoscere in tutte le altre persone presenti in quella foto i suoi aguzzini. Voglio riconoscere la violenza fascista che ha prodotto quel dolore: riconoscerla è l’unico modo per potermi definire antifascista, altrimenti sono l’antifascista della domenica, esattamente come i cattolici della domenica.


Lettera aperta al movimento lgt antifascista e al movimento antifascista tutto


Il nostro paese sta accelerando la corsa verso una compiuta forma di fascismo: credo che ci sia bisogno di una risposta immediata.

E spiego subito chi, secondo me, è responsabile dell'introduzione del fascismo in un paese, della produzione di pogrom, dell'omicidio di vittime innocenti: è responsabile il piccolo o grande dittatore di turno, ma anche i suoi ministri-fantoccio; è responsabile il generale che ordina di uccidere ma anche il soldato che esegue quell'ordine, è responsabile il picchiatore che uccide un ragazzo per strada, ma anche chi si volta dall'altra parte. E' responsabile quel veronese che in autobus grida "vicino a sto negro no me sento" (trad: non mi siedo), ma anche chi non interviene e non si scandalizza (episodio raccontato dai compagni di scuola di uno degli assassini veronesi di Nicola).

Credo che tutti/e noi che ci definiamo antifascisti/e, ma - a maggior ragione - il movimento lgt, avremmo dovuto inorridire e denunciare il nazismo, l’orrore, la violenza che trasudavano dalle foto delle trans e delle ragazze rincorse fra gli sterpi dai poliziotti e insultate da una folla di teppisti l’altro giorno a Roma. Oppure togliamo il “t” dalla sigla, visto quanto siamo stati/e bravi/e ad assumerci una scena che troppo da vicino ricorda le foto dei nazisti all’opera nei primi anni 40.

Ero a Verona, sabato 17 maggio, e anche a me, seppure lesbica, ha dato noia che l’arcigay pensasse di essere parte di uno spezzone glbt che invece non c’era proprio.

Quella era una manifestazione che voleva denunciare che il tiro si era alzato, che ad essere colpiti/e non erano più solo i/le migranti, i/le rom, i/le trans, le lesbiche, i gay. Che voleva dire che a Verona – laboratorio di destra – il fascismo aveva già alzato il tiro e aveva ucciso un ragazzo qualsiasi. Prima ancora che lesbica io a Verona volevo essere una donna, una qualsiasi donna: solo come tale posso porre il mio corpo contro la barbarie che ci apprestiamo a vivere. Io a Verona non ero la lesbica Graziella, io a Verona ero Nicola, perché lo avevo preso sul serio lo striscione di apertura.

A Verona nel ’95, con il Comitato “Alziamo la testa”, contribuii ad organizzare una precedente manifestazione per denunciare l’attacco fascista contro gay e lesbiche portato avanti da quell’amministrazione di destra, molto simile all’attuale. Fin da subito abbiamo avuto chiara una cosa: che alla barbarie non saremmo bastati/e noi, non sarebbe bastata la scomparsa delle lesbiche, dei gay, dei/delle trans da Verona e dal mondo.

Fin da allora avemmo chiaro che la battaglia prioritaria avrebbe dovuto essere per il diritto di tutti/e a non essere linciati/e da quella folla inferocita che alcuni/e di noi avevano e avrebbero visto da vicino, istigata da inviti all’omicidio pronunciati in consiglio comunale, che solo con una battaglia politica generale avremo potuto cercare di salvare la nostra dignità, la nostra autodeterminazione, la nostra stessa vita. E la linea di demarcazione oggi sta lì: l’orrore nazista del secolo scorso ci insegue da vicino, e mie/i/* compagni/e di percorso politico possono essere solo coloro che non temo si trasformino domani in una folla che mi vuol linciare o in una folla che si gira dall’altra parte.

Non importa di quale delle due folle si fa parte: il fascismo ha bisogno di entrambe per vincere, e oggi, in Italia, le sta trovando. Purtroppo anche in quello che si definisce movimento lgt che, mi spiace dirlo, ma di fronte a quelle trans con la pelle strappata dai rovi, con le mani dei poliziotti addosso, con la folla che godeva del loro dolore, rischia di girarsi dall’altra parte.

Me compresa, in un assurdo tentativo di nasconderci nella folla che non vede. Perché è troppo doloroso, o perché non siamo stati/e noi - in quel momento - ad essere alla gogna.

Da più parti si invita il movimento lgt al pragmatismo, alla ricerca del dialogo, anche con rappresentanti delle istituzioni che si ispirano ad ideologie fasciste. So di non sembrare pragmatica, eppure credo di esserlo, e molto. Ma il pragmatismo e il dialogo sono utilizzabili in un contesto civile, mentre quello che vedo oggi è tutto fuorché civile. E allora le pragmatiche operazioni di giocarsi visibilità nelle manifestazioni o sui media (cosa che anch’io in altri tempi ho fatto) oggi mi sembrano ridicole di fronte a quanto sta avvenendo. E ridicolo mi sembra un “movimento lgt” che invita Alemanno al cinema o la Carfagna ai pride e che vorrebbe spiegarle cos’è la discriminazione, o che scherza sull’abbigliamento che ci viene richiesto, e intanto lascia sole quelle persone di fronte alla folla.

Non mi importa parlare alla Carfagna, vorrei tanto – invece – trovare parole per quelle trans, per quelle ragazze, e trovarle con voi, a cui scrivo questa lettera aperta. Vorrei ricordare che quelle sono – come noi – le compagne di strada di cui ci ha lungamente parlato Ornella Serpa, la cui morte abbiamo pianto solo pochi giorni fa.

Tutti/e al pride con un bel triangolo rosa, ma non messo da noi, messo da loro. Ma per 365 giorni all’anno, quel triangolo, e non tutti/e in gruppo, ma nei nostri paesi, nelle nostre città, sul posto di lavoro. Come le trans trascinate via a Roma e fotografate come un trofeo. Questo è quello che rischiamo.

Un pride incosciente di tutto ciò può essere solo una dichiarazione di incapacità politica di rispondere a quanto sta avvenendo, una regressione all’epoca pre-movimento lgt.

L’imbarazzo che ho provato di fronte alla promozione del pride con tono festaiolo nella circostanza veronese è qualcosa di più di semplice imbarazzo: è la paura di perdere dignità e autorevolezza come movimento glt di fronte a quelle poche realtà rimaste dalla nostra parte. Non dalla parte lgt, ma dalla parte della dignità umana, della civiltà, della laicità, del rispetto, dell’autodeterminazione.

E’ la paura che dimostrare tale debolezza e incapacità politica ci porti ad essere le prossime vittime, esattamente come nella notte dei lunghi coltelli.

Se ci sono gay, lesbiche o trans che fanno parte delle folle che si girano dall’altra parte e vogliono venire al pride, per quanto mi riguarda possono pure venire, la strada è di tutti/e…

Io starò fisicamente accanto a loro, ma non camminerò con loro. Oggi in Italia c’è bisogno di dire altro dal “siamo tutti uguali”… Uguali a chi? Alla maggioranza? No, io non sono uguale, anche se a volte rischio di esserlo: io non mi voglio girare dall’altra parte, la voglio guardare in faccia quella trans della foto. Voglio riconoscere in tutte le altre persone presenti in quella foto i suoi aguzzini. Voglio riconoscere la violenza fascista che ha prodotto quel dolore: riconoscerla è l’unico modo per potermi definire antifascista, altrimenti sono l’antifascista della domenica, esattamente come i cattolici della domenica.

Quando nel 1994 si fece il primo pride a Roma, io ero molto orgogliosa di appartenere a un movimento di donne e uomini coraggiosi/e che, per la prima volta in Italia, sfidavano la paura degli scarsi numeri per gridare non il proprio essere uguali, ma per l’appunto il proprio essere diversi, ma non in quanto lesbiche, gay o trans, bensì in quanto donne e uomini che non abbassavano la testa.

Ecco, abbiamo bisogno di ancora più coraggio, e di intelligenza, per resistere, come movimento e come singoli/e: non possiamo permetterci di cullare nelle beate saune e discoteche proprio nessuno, e non possiamo permetterci di avere accanto delle persone inaffidabili che credono di vivere nel migliore dei mondi possibili, e che le unioni civili magari ce le dà questo governo.

Può essere che ce le dia, ma solo se siamo ariani e abbiamo almeno 50.000 euro di reddito l’anno.

E intanto linciamo i/le rom e le trans brasiliane, così siamo fino in fondo uguali a tutti quell’altri.

Il 7 giugno prossimo ci sarà il pride di Roma e ci voglio essere, ci voglio essere con un cartello al collo con scritto “sono una trans brasiliana” perché oggi in Italia c’è davvero bisogno di una nuova Stonwell, ma anche di una nuova resistenza. E non mi basterà sfilare per le vie del centro, ma vorrei tanto andare in quel luogo dove atti di barbarie si stanno compiendo sugli stessi soggetti che diedero vita al primo Stonwell.

Credo che sia un dovere morale di chi si ritiene movimento lgt e/o antifascista non concludere il pride di Roma 2008 a ballare o a divertirsi, ma portando un segnale di civiltà in quei luoghi dove anche quella sera ci saranno persone in balia di picchiatori fascisti.

E’ un invito, un invito a resistere forse poco pragmatico, ma siamo totalmente dentro ad un regime da cui sarà possibile uscire solo dopo tante altre morti, che saranno via via più barbare e più generalizzate, e non credo che abbiamo molti altri strumenti che non si chiamino antifascismo e resistenza.

Graziella Bertozzo

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