user preferences

New Events

Mashrek / Arabia / Irak

no event posted in the last week
Recent articles by Stephen Zunes
This author has not submitted any other articles.
Recent Articles about Mashrek / Arabia / Irak Imperialismo / Guerra

Resist Genocide Oct 14 23 by Melbourne Anarchist Communist Group

Résister au génocide Oct 14 23 by Melbourne Anarchist Communist Group

La révolution du Rojava a défendu le monde, maintenant le monde doit d... Jan 09 22 by Diverses organisations anarchistes

La Lobby per l’Israele: quanto potente è in realtà?

category mashrek / arabia / irak | imperialismo / guerra | stampa non anarchica author Monday January 19, 2009 22:38author by Stephen Zunes Report this post to the editors

"Da molto tempo ormai Washington ha un interesse nel mantere militarmente potente e bellicoso un Israele che dipende dagli Stati Uniti. Una vera pace potrebbe minare questo rapporto. Gli Stati Uniti hanno dunque perseguito una politica che tenta di portare più stabilità nella regione ma che non arriva a includere la vera pace. Washington vuole un Medio Oriente dove l’Israele possa svolgere il ruolo di procuratore per gli interessi militari e economiche statunitensi. E questa simbiosi richiede la soppressione di ogni sfida all’egemonia USA-Israele nella regione."


La Lobby per l’Israele: quanto potente è in realtà?


Stephen Zunes | Maggio 16, 2006
Editor: John Gershman, IRC
Da quando è stato pubblicato sul London Review of Books nel mese di marzo, l’articolo di John Mearsheimer e Steve Walt “The Israel Lobby”—e poi la sua versione più lunga pubblicata come “working paper” per la John F. Kennedy School of Government della Harvard University—ha attirato molta attenzione in tutto il mondo politico. Questi noti professori sostengono due tesi principali: la prima è la preoccupazione, del tutto legittima e largamente ammessa (al di fuori del mondo ufficiale di Washington), che la politica mediorientale degli USA, e in particolare il sostegno statunitense per le politiche più controverse del governo israeliano, sia contraria agli interessi strategici a lungo termine degli Stati Uniti. Il secondo argomento, molto più discutibile, è che gran parte della colpa per questa politica sconsigliata guardi alla “lobby israeliana” piuttosto che ai più potenti interessi che invece fanno da motore alla politica estera statunitense.

L’Articolo Mearsheimer/Walt ha incontrato le critiche irragionevoli di una larga gamma di apologeti di destra del sostegno statunitense all’occupazione israeliana, tra cui il deputato democratico Eliot Engel (che accusa gli autori di “antisemitismo”), il professore di diritto a Harvard, Alan Dershowitz (che falsamente accusa gli autori di aver raccolto del materiale dai siti internet di gruppi neonazisti), opinionisti come Martin Kramer e Daniel Pipes, e pubblicazioni come “New York Sun” e “New Republic”. Gli autori sono stati criticati ingiustamente anche per aver presumibilmente distorto la storia del conflitto israelo-palestinese, anche se la loro visione generale è in realtà abbastanza precisa. Il problema sta nella loro analisi.

L’articolo ha invece raccolto grandi elogi immeritati da molti negli ambiti progressisti, che l’hanno postato sui loro siti web, distribuito alle liste, indicandolo come un esempio di dire la verità al potere. Sebbene siano insolite e gradite le critiche tra l’establishment del sostegno bipartisan degli USA per l’occupazione israeliana, i promotori dell’articolo hanno in gran parte omesso di valutare l’agenda ideologica dei suoi autori e la validità degli argomenti specifici.

Va notato che Mearsheimer e Walt sono noti personaggi della scuola realista dei rapporti internazionali, che fa la tara al diritto internazionale, ai diritti umani e ad altre questioni legali e morali della politica estera. Questa tradizione realista minimizza la diplomazia qualora non fosse sostenuta dalla forza militare, sminuisce il ruolo dell’ONU e di altri organismi intergovernativi, e respinge il ruolo crescente delle Ong internazionali e dei movimenti popolari.

Con alcuni eccezioni degne di nota, Mearsheimer e Walt hanno largamente sostenuto la politica estera statunitense durante e dopo la Guerra Fredda. Ad esempio, durante gli anni ’80, Mearsheimer – laureatosi a West Point – si oppose sia ad un congelamento delle armi nucleari che ad una politica nucleare di rifiuto di usare per primi tali arme. Critico degli sforzi dei proponenti della non proliferazione, Mearsheimer ha difeso l’arsenale atomico dell’India e ha invocato la diffusione delle arme atomiche a stati quali Germania e Ucraina. E’ stato anche un noto sostenitore della Guerra del Golfo del 1991.

E’ ironico, dunque, che questi due signori si siano trovati improvvisamente celebrati da molti critici progressisti della politica estera statunitense in seguito al loro articolo. Ma sarebbe bene che questa adulazione fosse mitigata dalla cieca accettazione degli autori di certi presupposti ingenui circa il ruolo dell’America nel mondo, ad esempio la loro affermazione che la politica estera degli Stati Uniti – il più grande fornitore di armi ai regimi dittatoriali – è tesa a “promuovere la democrazia all’estero”.

E’ sempre gradito e significativo quando dei conservatori tradizionali, falchi e altri nell’establishment della politica estera si pronunciano nettamente contro alcune specifiche manifestazioni della politica estera statunitense, come ad esempio quando Mearsheimer e Walt si unirono a altri conservatori di rilievo del mondo accademico nell’opporsi all’invasione statunitense dell’Irak nel 2003. Tuttavia, tale opposizione realista nasce non dalle preoccupazioni per certe questioni morali o legalitari bensì dal ragionamento razionale che una certa guerra potrebbe creare maggiore instabiltà e quindi andare contro gli interessi nazionali dell’America. Infatti, la violazione da parte israeliana delle norme legali internazionali e l’impatto di ciò sulla popolazione civile nei territori occupati vengono menzionati nell’articolo soprattutto come modo di rispondere alle affermazioni che la politica estera USA a sostegno del governo israeliano si basa su un imperativo morale.

Quello che i sostenitori dell’analisi di Mearsheimer e Walt sembrano ignorare è che entrambi hanno un interesse nell’assolvere da ogni responsabilità quell’establishment della politica estera che hanno servito così lealmente per tanti anni. Israele e i suoi sostenitori vengono usati sostanzialmente come capri espiatori della disastrosa politica estera statunitense nel Medio Oriente. E sebbene essi evitino ogni nozione semplicistica, antisemita e cospiratoria sul potere e l’influenza ebraica nell’esaminare i fallimenti USA nella politica sul Medio Oriente, è comunque preoccupante che i colpevoli principali che citano siano in gran parte individualità e organizzazioni ebraiche.

Problematici sono anche i riferimenti nell’articolo alla politica mediorientale statunitense risultante dall’influenza degli “elettori ebraici”, dal momento che la maggior parte degli ebrei americani hanno posizioni più moderate su Irak, Iran e Palestina rispetto al Congresso o all’amministrazione Bush. Ugualmente, mentre è vero che Mearsheimer e Walt non sostengono che la lobby israeliana sia monolitica o centralizzata, mancano di sottolineare il fatto che non tutti i gruppi pro-Israele sostengono le politiche dei governi israeliani, specialmente di quelli di destra. Gruppi quali Americans For Peace Now, la Tikkun Community, Brit Tzedek v’Shalom e l’Israel Policy Forum si riconoscono tutti pro-Israele pur opponendosi all’occupazione, alle colonie, al muro della separazione e al sostegno incondizionato di Washington alle politiche israeliane.

Forse l’argomento più perverso nell’articolo è la loro affermazione che l’invasione dell’Irak del 2003 “fu motivata in buona parte da un desiderio di rendere più sicuro l’Israele”. Si tratta di un’affermazione assurda per diversi motivi. Anzitutto, l’Israele è molto meno sicuro in conseguenza alla crescita dell’estremismo islamista, di gruppi terroristici e dell’influenza iraniana sull’Irak dopo l’invasione negli ultimi anni del governo di Saddam Hussein, quando l’Irak non rappresentava più una minaccia strategica all’Israele e non era attivamente coinvolto nel terrorismo anti-israeliano. Infatti, da oltre un decennio l’Irak non rappresentava una minaccia seria all’Israele e alcuni tra i più importanti sostenitori di Israele al Congresso erano tra i più critici dell’invasione statunitense dell’Irak.

All’interno dell’amministrazione Bush, sebbene i neoconservatori fautori dell’invasione dell’Irak fossero sostenitori dei governi israeliani di destra, erano anche da molti anni sostenitori di governi di destra in America Latina, Asia sudorientale e altrove, in conseguenza alla nozione che tali alleanze servivano a rafforzare l’egemonia americana. Fondamentalmente, però, gli Stati Uniti hanno degli interessi strategici impellenti nel Golfo Persico da molto tempo, prima ancora dalla nascita dell’Israele moderno. Infatti, le compagnie petrolifere e l’industria delle armi esercitano molto più influenza economica e ideologica sulla politica statunitense nella regione del Golfo Persico rispetto alla lobby israeliana. (Si veda The U.S. Invasion of Iraq: Not the Fault of Israel and Its Supporters.)

Mearsheimer e Walt sostengono anche che la lobby israeliana ha esortato Washington ad esercitare una pressione “molto forte” sulla Siria. In realtà, il governo israeliano – temendo l’instabiltà e un aumento dell’integralismo islamico qualora il regime di Assad fosse rovesciato – da tempo incita gli Stati Uniti ad evitare di fare troppe pressioni sulla Siria. Inoltre, decine di deputati americani che votarono a favore del Syria Accountability Act del 2003 si sono opposti a diverse risoluzioni a sostegno delle politiche israeliane. (Si veda The Syrian Accountability Act and the Triumph of Hegemony.)

E’ facile vedere la falsità dell’affermazione degli autori che la lobby israeliana sarebbe un fattore principale nella formulazione della politica generale degli Stati Uniti nel Medio Oriente. Infatti, la politica USA nel Medio Oriente negli ultimi decenni – orchestrando interventi militari e colpi di stato appoggiati dalla CIA; sostenendo dittature di destra; promuovendo politiche economiche neoliberiste attraverso il Fondo Monetario Internazionale e altre istituzioni finanziarie internazionali; minando il lavoro delle Nazioni Unite e il diritto internazionale; imponendo sanzioni contro governi nazionalisti, ecc. – è in modo rilevante del tutto simile alle politiche USA in America Latina, Africa e Asia sudorientale. Se gli Stati Uniti adoperano simili politiche in altre parti del mondo senza la spinta della lobby israeliana, come mai la sua presenza sarebbe necessaria per poter spiegare le politiche statunitensi nel Medio Oriente?

Se l’agenda promossa dalla lobby israeliana fosse sostanzialmente diversa dalla politica estera degli USA in altre parti del mondo, allora sì che si potrebbe discutere sulla possibile influenza di questa lobby. Tuttavia, non è così. Per questo motivo, alcuni tra i più vocianti oppositori della politica estera statunitense in generale e del sostegno americano ad Israele in particolare – Noam Chomsky, Phyllis Bennis, Mitchell Plitnick, Simona Sharoni, Joseph Massad, Steve Niva, Norman Finkelstein, ecc. – hanno chiamato in causa questo presunto potere della lobby israeliana, notando che al massimo è responsabile (usando le parole del professor Massad) per “i dettagli e l’intensità ma non per l’orientamento, il contenuto o l’impatto di tali politiche”.

Quando si tratta della politica statunitense nei confronti di Israele e della Palestina, è vero che gruppi come l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) e i comitati per l’azione politica (i PAC) ad esso imparentati hanno avuto un’influenza su alcuni parlamentari nonché su alcuni responsabili nelle varie amministrazioni repubblicane e democratiche. Inoltre, le principali organizzazioni ebraiche conservatrici hanno saputo mobilitare ingenti risorse lobbistiche, contributi economici dalla comunità ebraica, e pressioni da parte dei cittadini sui media e su altre forme di dibattito pubblico a sostegno del governo israeliano. A volte hanno anche creato un clima intimidatorio nei confronti delle tante persone che parlano a favore della pace e dei diritti umani o che sostengono il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione. Ma tutto ciò è ben diverso dall’affermare che la lobby israeliana è in gran parte responsabile per la politica statunitense nel Medio Oriente, o anche in Israele.

Da cosa nasce il sostegno statunitense dal governo israeliano?

La triste realtà è che il governo USA è perfettamente capace di sostenere alleati di destra nel loro tentativo di invadere, reprimere e colonizzare i loro vicini più deboli senza che ci sia una minoranza etnica ben organizzata che in qualche modo constringa il Congresso o l’amministrazione a farlo. Dire altrimenti significa credere che, senza la lobby israeliana, gli Stati Uniti sosterebbero il diritto internazionale e i diritti umani nella loro politica estera. Dal momento che la politica estera statunitense raramente è stata sostenitrice del diritto internazionale e dei diritti umani, tranne quando coincide con alcuni interessi politici a breve termine, perché mai per il Medio Oriente deve essere diversa? Nessuna lobby indonesiana-americana si è resa responsabile per il sostegno bipartisan alla brutale occupazione di Timor Est durata 25 anni da parte dell’Indonesia, né esiste alcuna lobby marocchina-americana responsabile per il sostegno bipartisan all’odierna occupazione marrochina del Sahara Occidentale.

Certamente è vero che gli Stati Uniti sono, nelle parole di Mearsheimer e Walt, “giù di passo” rispetto all’insieme della stragrande maggioranza della comunità internazionale per quanto riguarda il trattato sul divieto delle mine terrestri, la Corte Penale Internazionale, il Protocollo di Kyoto sul riscaldamento globale e l’embargo contro Cuba. Ugualmente, vent’anni fa gli Stati Uniti erano giù di passo rispetto alla stragrande maggioranza della comunità internazionale per quanto riguardava il posizionamento delle mine nei porti nicaraguensi, il sostegno ai terroristi dei Contras nonché nella loro opposizione alle sanzioni contro il regime di apartheid in Sud Africa e l’alleanza con Pretoria a sostegno dei ribelli dell’UNITA in Angola.

L’osservazione da parte di Mearsheimer e Walt che il sostegno statunitense ad Israele è contro gli interessi strategici degli USA perché stimola l’antiamericanismo nel mondo arabo/islamico non è una posizione senza precedenti. In ogni amministrazione ci sono stati elementi all’interno degli ambienti dell’establishment che hanno raggiunto conclusioni che sfidano la filosofia dmoninante. Ad esempio, gli stessi mearsheimer e Walt si unirono a Zbigniew Brzezinski, Jacek Krugler e altri realisti secondo cui l’invasione dell’Irak andava contro gli interessi della sicurezza nazionale statunitense, quando l’amministrazione Bush e una maggioranza notevole al Congresso (tra cui le direzioni di entrambi i partiti) la pensavano diversamente. Ugualmente, alcuni realisti di rilievo degli anni ’60, quali Hans Morgenthau, si opposero alla Guerra del Vietnam, nonostante il fatto che la stragrande maggioranza bipartisan a Washington continuasse a credere, almeno fino alla fine degli anni ’60, che la guerra fosse in qualche modo negli interessi dell’America. In altre parole, le varie amminstrazioni di entrambi i partiti si sono ripetutamente dimostrate capaci di agire contro gli interessi nazionali a lungo termine senza dover essere spinte a farlo dalla lobby israeliana.

Sotto certi aspetti – a breve termine e forzando le definizioni – il sostegno statunitense al governo israeliano va a favore degli interessi USA. In una regione dove il nazionalismo radicale e l’estremismo degli islamisti potrebbero minare il controllo americano del petrolio e altri interessi strategici, l’Israele ha svolto un ruolo importante nel prevenire la vittorie di alcuni movimenti radicali, non solo in Palestina ma anche in Libano e Giordania. Israele è servito a tenere a bada la Siria, con il suo governo radical-nazionalista precendentemente alleato dell’URSS, a l’aeronautica israeliana predomina nella regione.

Le frequenti guerre di Israele facilitano la sperimentazione sul campo di armi statunitensi e l’industria delle armi israeliana ha fornito armi e munizioni per diversi governi e movimenti di opposizione sostenuti dagli Stati Uniti. Inoltre, negli anni ’80, Israele rappresentava un canale per armi statunitensi a governi e movimenti troppo impopolari negli Stati Uniti da poter ricevere aiuti militari apertamente, tra cui il Sud Africa durante il regime dell’apartheid, la Repubblica Islamica dell’Iran, le giunte militari di destra del Guatemala e i Contras del Nicaragua. Consiglieri militari israeliani hanno aiutato i Contras, la giunta del Salvador e altri movimenti e governi sostenuti dagli Stati Uniti. L’agenzia israeliana di intelligence, Mossad, ha collaborato con la CIA e altre agenzie statunitensi nella raccolta di intelligence e nell’esecuzione di operazioni clandestine. Israele possiede missili capaci di colpire bersagli a migliaia di kilometri di distanza dai suoi confini e ha collaborato con il complesso industrial-militare statunitense nella ricerca e sviluppo di nuovi aerei da caccia e sistemi di difesa contro i missili, un rapporto che cresce ogni anno. Come diceva un analista israeliano durante lo scandalo dell’Irangate, nel quale Israele svolse un ruolo intermediario della massima importanza: “E come se Israele fosse diventato semplicemente un’altra agenzia federale, da usare quando si vuole fare qualcosa senza che nessuno se ne accorga”. L’ex Segretario di Stato degli USA, Alexander Haig, una volta descrisse Israele come la più grande portaerei statunitense al mondo, e l’unica inaffondabile.

Uno dei principi di base della teoria dei rapporti internazionali è che il rapporto militare più stabile tra avversari (oltre al disarmo) è la parità strategica. Tale rapporto dà a ciascuna parte un efficace deterrente che impedice un attacco preventivo dall’altra parte. Se gli Stati Uniti fossero semplicemente preoccupati della sicurezza di Israele, Washington farebbe sì che i livelli di difesa di Israele rimanessero approssimativamente uguali a una qualsiasi combinazione di forze armate arabe. Invece, i capi di entrambi i partiti politici statunitensi hanno fatto appello perché venga assicurata una superiorità militare israeliana in termini qualitativi. Quando Israele era militarmente meno dominante, c’era meno consenso a Washington sul sostegno ad Israele. Il mantenimento di un alto livello di aiuti ad Israele nasce non per una preoccupazione per la sopravvivenza di Israele bensì dal desiderio che Israele mantenga il suo dominio politico sui palestinesi e la sua dominanza militare della regione.

La quantità enorme di aiuti militari che Israele riceve ogni anno sarebbe, secondo Mearsheimer e Walt, tra gli altri, indicativa del potere della lobby israeliana. Eppure il modello degli aiuti riflette semplicemente l’importanza d’Israele per gli interessi statunitensi. Immediatamente in seguito alla vittoria spettacolare di Israele nella guerra del 1967, quando dimostrò la sua superiorità militare nella regione, gli aiuti statunitensi decollarono, aumentando del 450%. Secondo il New York Times, questo aumento era in parte dovuto alla disponibilità di Israele a fornire agli Stati Uniti esemplari di armi sovietiche catturate durante la guerra. In seguito alla guerra civile in Giordania nel 1970-71, quando Israele mostrò una capacità di prevenire l’intervento siriano a sostegno dell’insurrezione contro la monarchia filo-occidentale e, quindi, controllare i movimenti rivoluzionari al di fuori dei propri confini, gli aiuti statunitensi aumentarono ancora di più. Infine, quando Israele diede dimostrazione della sua potenza nel soffocare un forte assalto militare arabo nell’ottobre del 1973, ci fu un ulteriore aumento negli aiuti. Tali aumenti negli aiuti andavano in parallelo alla decisione britannica di ritirare le proprie forze dalle zone ad est del Canale di Suez. Insieme allo scià d’Iran, che ricevette aiuti massicci nella forma di armi e collaborazione logistica come elemento chiave della Dottrina Nixon, Israele emerse come importante forza alleata in seguito al ritiro dei britannici.

Questo schema si è ripetuto nel 1977 con un altro aumento vertiginoso negli aiuti in seguito all’elezione del primo governo di destra in Israele, del Likud. Ulteriori aumenti coincisero con la caduta dello scià e la ratifica dell’Accordo di Camp David con l’Egitto. Ci fu ancora un altro boom degli aiuti statunitensi poco dopo l’invasione israeliana del Libano nel 1982. Nel 1983 e 1984, quando gli Stati Uniti e Israele firmarono delle intese per la collaborazione strategica e la progettazione militare e condussero le loro prime esercitazioni militari congiunte, Israele fu premiato con 1,5 miliardi di dollari in aiuti economici e altri 500 milioni di dollari per lo sviluppo di un nuovo caccia. Durante e immiatamente dopo la Guerra del Golfo, gli aiuti statunitensi aumentarono di 650 milioni di dollari. Nel decennio successivo – con un aumento delle preoccupazioni per la minaccia costituita da gruppi terroristici, estremisti islamici e i cosiddetti “stati canaglia” – aumentarono di nuovo gli aiuti USA ad Israele. Un trattato di pace con la Giordania e una serie di accordi di sganciamento con i palestinesi portarono a nuovi trasferimenti di armi nonostante la maggiore sicurezza che questi portarono all’Israele.

Altro che non conveniente, come affermano Mearsheimer e Walt: la Guerra del Golfo fu un’ulteriore prova che Israele costituisce una risorsa strategica: nuova tecnologia israeliana per armi aria-terra fu integrata dagli alleati per le loro missioni di bombardamento contro le installazioni missilistiche irachene e altri bersagli; nuovi serbatoi israeliani aumentarono la portata dei caccia F-15; mezzi corazzati sminatori di origine israeliana vennero utilizzati durante gli assalti finali sulle posizioni irachene; ponti mobili israeliani furono adoperati dai Marines; gli elicotteri USA usarono sistemi di inseguimento missilistici e GPWS israeliani; anche i missili Tomahawk includono alcuni componenti chiave sviluppati in Israele. Non sarà una sorpresa sapere che gli aiuti statunitensi ad Israele aumentarono di nuovo negli anni ’90, anche quando il sostegno militare a alcuni nemici arabi crollò in seguito allo sgretolamento dell’Unione Sovietica.

Dopo gli attacchi terroristici del settembre 2001, la percezione che Israele sia un alleato naturale della “guerra sul terrore” del presidente George W. Bush ha ulteriormente cementato questo partneriato strategico e il Pentagono dispiega preventivamente armamenti in Israele in preparazione per il suo utilizzo rapido altrove nel Medio Oriente. Israele ha sostenuto le operazioni militari USA in Irak, collaborando all’addestramento delle Forze Speciali statunitensi nelle tecniche antisommossa e inviando specialisti di guerra urbana a Fort Bragg per l’istruzione di nuclei assassini che avranno come bersaglio i capi dei guerriglieri iracheni. L’amministrazione civile statunitense in Irak, stabilitasi dopo l’invasione del 2003, è stata modellata sull’amministrazione civile israeliana nei territori occupati arabi dopo l’invasione israeliana del 1967. Ulteriori consultazioni hanno avuto luogo con l’invio di ufficiali americani in Israele e ufficiali israeliani in Irak. In più, gli israeliani hanno aiutato ad armare e addestrare le milizie curde filoamericane e hanno collaborato con i funzionari americani nei centri di interrogatori per presunti insorti in detenzione nei pressi di Baghdad. Consiglieri israeliani hanno condiviso con gli americani le tecniche di costruzione e mantenimento dei blocchi stradali e dei check-point, hanno provveduto all’addestramento di personale in tecniche di sminamento e irruzione, e hanno dato consigli sull’uso degli UAV per inseguire presunti insorti. Israele ha anche fornito tecnologia per la sorveglianza aerea, missili per inganno radar (“decoy”) e attrezzi edili corazzati. In cambio, Israele ha potuto godere di nuovo sostegno da parte degli USA.

In parole povere, più Israele diventa forte, aggressivo e conforme agli interessi statunitensi, più aumenta il livello degli aiuti e della collaborazione strategica che riceve. Un Israele militante viene considerato un aiuto agli interessi americani. Infatti, un Israele in uno costante stato di guerra – tecnologicamente sofisticato e militarmente avanzato, sebbene non abbia un’economia indipendente e dipendi dagli Stati Uniti – è molto più disponibile a svolgere compiti sgraditi agli altri alleati, cosa che un Israele in pace probabilmente non sarebbe. Come diceva l’ex-Segretario di Stato, Henry Kissinger, parlando della riluttanza israeliana di fare la pace: “la testardaggine di Israele… è di aiuto agli interessi di entrambi i nostri paesi”.

Al contrario, gli alleati arabi di Washington – tuttora diffidenti delle intenzioni americane e non avendo (come invece ha Israele) il vantaggio di forze armate ben addestrate, stabilità politica, raffinatezza tecnologica e la capacità di poter mobilitare risorse umane e materiali – non potrebbero mai sostituire Israele in un alleanza americana. Dal momento che il sostegno ad Israele – nonostante la sua repressione dei palestinesi – non ha impedito la collaborazione, del tutto senza precendenti, con Egitto, Marocco e le monarchie del Golfo Persico, pochi tra coloro che decidono le politiche statunitensi hanno espresso una preoccupazione sul fatto che l’alleanza USA-Israele possa impedire lo sviluppo di rapporti strategici più stretti con i regimi autoritari del mondo arabo.

In breve, benché controproducente nel lungo termine, il sostegno statunitense al governo israeliano ha le sue radici nelle stesse considerazioni strategiche che hanno indotto Washington a sostenere altri governi che violano le norme giuridiche internazionali. Infatti, è difficile credere che una tale maggioranza bipartisan congressuale avrebbe potuto perseguire coscientemente delle politiche che credevano contrarie agli interessi della sicurezza degli Stati Uniti. Ci sono invece tanti precedenti storici per un largo consenso bipartisan che persegue con miopia delle politiche che poi nuocciono gli interessi statunitensi. Mentre la lobby israeliana certamente contribuisce a tale miopia attraverso la loro distorsione del quadro storico e del quadro attuale, ci sono anche parecchi altri fattori culturali, politici, ecc. Il noto accademico israeliano e attivista per la pace, Jeff Halper, ha detto: “Israele può proseguire la sua occupazione solamente a causa della sua disponibilità di servire gli interessi imperiali dell’Occidente (e degli USA in primis)” e che il paese è infatti diventato “la damigella dell’Impero americano”. In altri termini, la lobby israeliana sembra potente perché Israele sostiene gli interessi mondiali degli USA. Al contrario, se Israele avesse un governo genuinamente di sinistra o una politica estera anti-imperialista, la lobby israeliana non sembrerebbe così potente.

L’influenza della lobby su quelli che decidono le politiche

La lobby israeliana sembra essere più potente di quanto non lo sia realmente perché il suo progetto corre parallelo agli interessi di coloro che veramente detengono il potere a Washington. Quando nascono conflitti tra questo progetto e tali interessi, si rivelano le debolezze della lobby.

Di fronte alle pressioni esercitate dalla lobby israeliana, i presidenti americani non sono per niente impotenti. Abbiamo le prove che in quelle occasioni, quando un presidente statunitense si rende conto che le politiche promosse dalla lobby israeliana non sono consone con gli interessi americani, l’amministrazione generalmente vince. Durante la Crisi di Suez nel 1956, pochi giorni prima dell’elezione presidenziale, il presidente Dwight Eisenhower condannò duramente l’invasione d’Egitto da parte israeliana, francese e britannica – temendo una forte reazione radicale del mondo arabo qualora gli Stati Uniti avessero mancato di farlo. Minacciando di rimuovere l’esenzione dalle imposte per gli obblighi israeliani e per i contributi privati ad Israele, Eisenhower costrinse il governo israeliano a ritirarsi completamente dal territorio egiziano in pochi mesi. Ugualmente, quando una forza israeliana invase il sud del Libano nel 1978, raggiungendo il fiume Leonte, il presidente Jimmy Carter costrinse le truppe a ritirarsi entro pochi kilometri dal confine, minacciando la sospensione degli aiuti americani. Nel 1981, il presidente Ronald Reagan sconfisse un tentativo concertato da parte dell’AIPAC di far bloccare dal Congresso la vendita di velivoli AWACS all’Arabia Saudita. 10 anni più tardi, il presidente George Bush resse alle pressioni dall’AIPAC, ritardando fino a dopo le elezioni politiche in Israele una garanzia per un prestito del valore di 10 miliardi di dollari, così assicurandosi della sconfitta del primo ministro di destra, Yitzhak Shamir, che aveva ostacolato il processo di pace contro la volontà dell’amministrazione Bush. Nel 2004, l’attuale amministrazione Bush riuscì a costringere Israele a tirarsi indietro da un accordo con la Cina per la modernizzazione dei ricognitori Harpy, e ha imposto la rimozione del direttore generale del Ministero della Difesa israeliano, Amos Yaron. In breve, non si può sostenere che la lobby israeliana abbia “in mano” la politica estera statunitense per quanto riguard il Medio Oriente, come vorrebbero i professori Mearsheimer e Walt.

Sebbene siano innegabili la parzialità statunitense nel sostegno al governo d’Israele e l’uso di 2 pesi e 2 misure da parte di Washington per quanto riguarda il comportamento israeliano, una simile condotta da parte americana non è cosa che riguardi solo Israele. Ad esempio, Mearsheimer e Walt giustamente osservano che il sostegno di Washington ad Israele nonostante gli abusi dei diritti umani dei palestinesi “ appare ipocrita quando poi Washington esercita pressioni su altri stati perché rispettino i diritti umani”, non vi è menzione del sostegno ugualmente ipocrita degli USA all’Arabia Saudita (si veda Time to Question the U.S. Role In Saudi Arabia), all’Egitto (si veda Bombings and Repression in Egypt Underscore Failures in U.S. Anti-Terrorism Strategy), all’Oman, al Marocco (si veda Morocco and Western Sahara), o a altri regimi arabi oppressori. Di nuovo, gli autori hanno ragione quando osservano che “gli sforzi statunitensi di limitare la proliferazione del nucleare sembrano ugualmente ipocriti alla luce della disponibilità degli USA ad accettare l’arsenale nucleare israeliano. Ma questo è veramente più ipocrita che firmare un accordo di collaborazione nucleare con l’India oppure vendere sofisticati caccia con capacità nucleare al governo pachistano nonostante gli arsenali nucleari di questi paesi? (Si veda Bush Administration Stokes Dangerous Arms Race on Indian Subcontinent.)

La lobby israeliana, come la maggior parte delle lobby, ha più influenza nell’ambito del Congresso. Eppure il Congresso svolge solo raramente un ruolo nella pianificazione della politica estera e negli ultimi decenni la politica estera è diventata sempre più una prerogativa del ramo esecutivo. Il ruolo del Congresso per quanto riguarda la politica estera è solo reattivo.

In ogni caso, è errato dare per scontato che la maggior parte dei membri del Congresso difenda energicamente le politiche del governo israeliano perché rischia la carriera se fa altrimenti. Infatti, la maggior parte dei campioni con più voce del governo israeliano hanno seggi sicuri e per essere rieletti non hanno bisogno del sostegno dei PAC pro-Israele o donazioni dalla comunità ebraica. Ad esempio, la mia rappresentante, Nancy Pelosi, abitualmente viene rieletta con l’80% dei voti e non avrebbe difficoltà a respingere una sfida da destra in questo distretto molto liberale. (Dopo oltre un decennio di comunicazioni con il suo ufficio per questioni che riguardano il Medio Oriente, sono convinto che la sua dura posizione antipalestinese sia frutto del suo razzismo antiarabo e non della paura che una posizione più equilibrata danneggerebbe le sue possibilità di rielezione.)

Molti casi che spesso si citano a prova del potere della lobby israeliana nello sconfiggere i membri del Congresso che pongono in questione il livello di sostegno statunitense per le politiche israeliane sono meno chiari di quaello che sembra in apparenza.

Ad esempio, un membro del Congresso, il repubblicano per l’Illinois, Paul Findley, fu sì il bersaglio dei PAC pro-Israele nella sua campagna, poi fallita, per la rielezione nel 1982, ma fu anche il bersglio dei PAC sindacalisti, ambientalisti, femministi e democratici. Era il rappresentante di un distretto rurale in un momento quando i prezzi dei prodotti agricoli erano bassi, ed era nominato dal partito alla Casa Bianca in un anno dispari. Non sorprende che furono sconfitti in quell’anno diversi altri membri del Congresso repubblicani nei distretti rurali del Mid-West che non erano stati bersaglio dei PAC pro-Israele.

Ugualmente, quando il membro del Congresso signora Cynthia McKinney fu sconfitta in Georgia nelle primarie dei Democratici nel 2002, è vero che alcuni PAC pro-Israele contribuirono alla campagna del suo sfidante. Tuttavia, gran parte dei contributi venne da interessi commerciali di Atlanta e gruppi di destra furiosi a causa dell’opposizione urlata di McKinney contro l’amminstrazione Bush per varie questioni. La Georgia è uno dei pochi stati che consentono di votare nelle primarie di più partiti e migliaia di repubblicani nel suo distretto votarono nelle primarie dei Democratici in quell’anno, in numero sufficiente per assicurare la sua sconfitta. Quando si riprese il suo seggio due anni più tardi, la McKinney ammise che il suo fallimento nel 2002 fu per mano di una larga gamma di interessi compositi. Ciononostante, c’è chi ancor’oggi attribuisce la sua sconfitta, così come quella del deputato Findley, soprattutto alla lobby israeliana.

Per gran parte degli anni ’50 e ’60, si credeva a Washington che non ci potessero essere mai rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti e la Cina comunista per via del presunto potere della “lobby cinese” pro-Taiwan. Si pensava che anche parlare della possibilità di rapporti normalizzati potesse mettere a rischio una carriera politica. (Ci fu addirittura un tentativo di impeachment del giudice della Corte Suprema, William O. Douglas, dopo che egli propose di riconoscere la reale esistenza del governo comunista di Pechino.) Tuttavia, una volta che il presidente Richard Nixon, il Segretario di Stato Henry Kissinger e altri dell’elite della sicurezza nazionale si resero conto che era negli interessi degli USA aprire alla “Cina Rossa”, i lobbisti pro-Taiwan poterono fare ben poco per fargli cambiare idea. Ugualmente, semmai verrà il giorno quando quelli al potere a Washington decideranno che serve un radicale cambiamento della politica dei confronti dell’Israele, in tutta probabilità potranno effettuare tale cambiamento, senza riguardo per la reazione della lobby israeliana.

Mearsheimer e Walt giustamente notano la parzialità dei media principali, soprattutto tra i maggiori opinionisti e altri esperti, nella loro difesa delle politiche del governo israeliano e del sostegno statunitense a tali politiche. Non è chiaro, però, se questa parzialità è più forte rispetto a quella per le altre regioni di conflitto o altre questioni di politica internazionale nelle quali il governo statunitense è fortemente coinvolto. Durante gli anni ’80, ad esempio, era estremamente raro poter leggere o sentire alcunché di positivo nei media principali nei confronti del governo sandinista del Nicaragua. Furono più in evidenza articoli che documentavano gli abusi dei diritti umani del regime di sinistra che non quelli che elencavano i maggiori abusi dei regimi di destra in Guatemala e El Salvador. Oggi, superano di molto le notizie di stampa negative su Cuba e Venezuela quelle che riguardano i governi filostatunitensi con pessimi livelli nei diritti umani quali Colombia e Messico. Ugualmente, raramente si vedono serie analisi critiche del modello neoliberista della globalizzazione o del budget esageratamente gonfio del Pentagono, né ci sono molte notizie o articoli di opinione positivi sui gruppi che sfidano l’avidità delle corporations o la militarizzazione.

Ciò non vuol dire che coloro che sfidano la politica statunitense sul conflitto israelo-palestinese non siano stati soggetti a enormi pressioni da parte delle forze organizzate di destra. Io stesso sono spesso stato bersaglio di attacchi del genere. Per la mia opposizione al sostegno statunitense per le politiche del governo israeliano per l’occupazione, la colonizzazione e la repressione, sono stato citato maliziosamente, oggetto di calunnia e diffamazione, e falsamente accusato di “antisemitismo” e di “sostenere il terrorismo”; i miei figli hanno ricevuto vessazioni e l’amministrazione della mia università è stata bombardata di richieste per il mio licenziamento. Appuntamenti per interviste nei media e convegni sono stati cancellati, anche da gruppi che in genere sostengono il diritto di dissenso. (Ad esempio, nel 2003, solo due settimane prima del suo convegno annuale dove ero stato ingaggiato per parlare della politica estera statunitense e sul diritto internazionale, la State Bar Association of Arizona [associazione degli avvocati] ritirò l’invito quando il presidente e il consiglio di amministrazione ricevettero una pioggia di emails accusandomi di essere “anti-Israele”. Qualche anno prima, l’Oregon Peace Institute cancellò un invito per un mo discorso in un forum a Portland dopo simili pressioni dell’ufficio per la campagna del candidato democratico al Congresso nel primo distretto. E durante una recente conferenza di studi per la pace presso la Hofstra University, gli organizzatori hanno insistito all’ultimo momento perché fosse invitato a parlare anche un sostenitore del governo israeliano per poter rispondere alla mia presentazione “anti-Israele”, nella quale dovevo parlare del ruolo di Washington nel processo di pace israelo-palestinese; in nessuna altra sessione plenaria, nemmeno quelle con la partecipazione di persone tendenzialmente di sinistra, gli organizzatori alla Hofstra hanno voluto insistere sul diritto di “par conditio”.)

E’ importante ricordarsi, tuttavia, che coloro che sfidano le politiche statunitensi in qualsiasi parte del mondo saranno ugualmente soggetti all’intimidazione. Gli attacchi recenti contro professori americani specializzati nel Medio Oriente e le critiche rivolte alla Middle East Studies Association preoccupano non poco, ma non più degli attachi simili contro professori specializzati nell’America Latina o la Latin American Studies Association durante gli anni ’80. Furono diffuse negli anni ’60 critiche dalla destra ai studiosi dell’Asia sudorientale. In altre parole, quegli intellettuali con una conoscenza empirica di un qualsiasi regione del mondo e che sfidano le menzogne e le deformazioni di una qualsiasi amministrazione nella loro area di competenza saranno soggetti all’intimidazione.

Con tutto ciò non voglio affatto sminuire la natura eccezionale delle sfide che devono affrontare i critici del sostegno statunitense al governo israeliano. Dal momento che Israele è l’unico stato ebraico al mondo e che alcune critiche ad Israele sono veramente radicate nell’antisemitismo, gli attacchi organizzati contro coloro che si oppongono alle politiche israeliane spesso risuonano di più poiché vanno di mezzo presunte manifestazioni di pregiudizi contro un gruppo minoritario. Se al centro dell’attenzione non ci fosse uno stato ebraico, molti liberali respingerebbero tali attacchi in quanto maccartismo fuorimoda e non li prenderebbero sul serio. Di conseguenza, gli attacchi ai critici delle politiche israeliane hanno avuto più successo nel porre limiti al dibattito aperto, ma questa forma di effetto censura nasce più che altro dall’ignoranza e da sentimenti liberali di colpevolezza e non da qualche lobby israeliana onnipotente.

Un problema collegato ad esso è che i movimenti progressisti negli Stati Uniti non hanno saputo sfidare efficacemente la politica statunitense su Israele e sulla Palestina. Da anni, molti dei principali gruppi per la pace e per i diritti umani hanno evitato di prendere una posizione netta su Israele e sulla Palestina, anche se fanno un ottimo lavoro a favore di altre ingiustizie. Gruppi liberali di nota quali la Coalition for a New Foreign Policy, National Impact e Demilitariztion for Democracy si sono rifiutati di includere Israele nei loro (altrimenti ambiziosi) programmi lobbistici che collegano i traffici d’armi con il rispetto per i diritti umani.

E quei gruppi che invece prendono una posizione progressista sulle questioni israelo-palestinesi raramente fanno di essa una priorità legislativa. Ad esempio, Peace Action – la più grande e più influente organizzazione per la pace nel paese – abitualmente sostiene quei candidati per la Camera e il Senato che prendono posizioni estremamente anti-palestinesi, e difende le politiche di occupazione di Israele. Ironicamente, il gruppo ha recentemente inserito un link all’articolo di Mearsheimer e Walt sul suo sito. Come molti gruppi sulla sinistra, Peace Action è più propenso a lamentarsi del potere della lobby israeliana e i suoi PAC che non agire sulla questione in termini lobbistici oppure imporre il sostegno per una politica statunitense più moderata quale condizione per i propri contributi PAC.

Nel frattempo, alcuni gruppi che invece sfidano la politica USA sulla questione hanno accettato contributi economici da alcuni regimi arabi autocratici, danneggiando così la loro credibilità. Altri hanno adottato posizioni oltranziste che non solo sfidano l’occupazione israeliana ma lo stesso diritto di Israele ad esistere e quindi non vengono considerati sul serio dalla maggior parte di coloro che decidono la politica.

In assenza di una efficace contro-lobby, la lobby israeliana pare più potente di quanto non lo sia veramente. Inoltre, il mito di una lobby israeliana onnipotente è talmente diffuso che spesso riesce a far tanta paura ai progressisti da scoraggiarli dall’organizzazione di un’opposizione ad essa. Di conseguenza, esagerare il potere della lobby israeliana conduce ad una profezia che poi si realizza.

La vera lobby: il complesso militare-industriale

Nell’esaminare il potere della lobby israeliana di influenzare negativamente la politica statunitense nel Medio Oriente, è importante riconoscere il ruolo delle altre lobbies che sono interessati a incorraggiare l’attuale pericolosa direzione della politica statunitense. Porre tanta enfasi sull’AIPAC e i gruppi ad essa alleati significa non vedere gli altri interessi speciali e ideologie che svolgono un ruolo nel promuovere il sostegno USA al governo israeliano.

Tali gruppi alleati includono i cristiani integralisti che credono nella necessità di un Israele militarmente dominante perché possa avverarsi la Parusia, il Ritorno Glorioso del Cristo, ma vengono nominati solo di passaggio da Mearsheimer e Walt nel loro articolo. Come esempio del potere della lobby israeliana, gli autori raccontano che – dopo l’appello iniziale del presidente Bush ad Israele perché rinunciasse alla riconquista insanguinata delle città cisgiordane nella primavera del 2002, e il rifiuto da parte del primo ministro israeliano Ariel Sharon di raccoglierlo – l’amministrazione cambiò idea e si lanciò dietro l’offensiva. Tuttavia, la maggior parte degli articoli sul cedimento del presidente Bush lo attribuiscono non soprattutto alle pressioni dell’AIPAC e degli altri gruppi ebraici bensì alle oltre 100.000 emails che la Casa Bianca ricevette dai conservatori cristiani a difesa dell’offensiva israeliana. Infatti, questi sionisti cristiani esercitano un ruolo molto più influente sull’attuale amministrazione che non i sionisti ebraici. (Si veda The Influence of the Christian Right on U.S. Middle East Policy.) Durante le sue due campagne elettorali, George W. Bush dipendeva dagli elettori ebraici meno di qualsiasi altro presidente dell’era moderna, e nessun altro presidente è stato tanto indebitato con la Destra cristiana.

Altri fattori ideologici hanno un impatto sulla politica USA-Israele. Alcuni liberali anziani mantengono una concezione troppo sentimentale di Israele e – per simpatia con una minoranza storicamente oppressa e per rispetto delle istituzioni democratiche di Israele – sono troppo sensibili a qualsiasi critica allo stato ebraico. Poi ci sono i razzisti antiarabi e gli islamofobi che semplicemente odiano i palestinesi. La psiche americana si identifica anche – coscientemente o incoscientemente – con la nozione di un povero Israele sotto tiro. Entrambi gli stati furono fondati da pionieri europei, entrambi i popoli aspiravano ai principi democratici progressisti, e la storia di entrambe le nazioni narra di pulizia etnica e repressione diffusa delle popolazioni indigene.

Ma l’interesse particolare più importante che promuove un forte sostegno statunitense al governo israeliano è l’industria delle armi. Il complesso militare-industriale ha un forte interesse nell’incoraggiare massicci trasferimenti d’armi d Israele e agli altri alleati USA nel Medio Oriente, e sa esercitare enorme pressioni sui membri del Congresso che non sostengono questo ordine del giorno per la proliferazione delle armi. Questa influenza è in parte dovuta alle notevoli dimensioni dei contratti militari per il Medio Oriente. E’ molto più facile, ad esempio, per un membro del Congresso sfidare un contratto per armi all’Indonesia del valore di 60 milioni di dollari che non quelli per Israele che arrivano a 2 miliardi di dollari all’anno, particolarmente quando i distretti congressuali dove sono situate le fabbriche che producono queste armi sono così numerosi.

L’industria delle armi contribuisce per oltre 7 milioni di dollari durante ogni ciclo elettorale alle campagne per le elezioni al Congresso, il doppio di quanto contribuiscono i gruppi pro-Israele. In termini di budget lobbistici, la differenza è ancor più profonda: la sola Northrop Grumman spende sette volte il totale dell’AIPAC per le sue attività lobbistiche e la Lockheed Martin eccede l’AIPAC per un fattore di quattro. Ugualmente, il budget lobbistico dell’AIPAC è minuscolo quando paragonato a quelli della General Electric, la Raytheon, la Boeing, e altre aziende con contratti militari sostanziosi.

A differenza delle previsioni, la fine della Guerra Fredda e i progressi significativi nel processo di pace mediorientale degli anni ’90 non ha comportato una riduzione di aiuti militari e economici statunitensi ad Israele. Il valore degli aiuti USA ad Israele è più alto oggi di 30 anni fa, quando le imponenti e ben equippaggiate forze armate dell’Egitto minacciavano la guerra, quando l’esercito siriano era in forte crescita con l’aiuto delle armi sovietiche, quando le fazioni armate dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) lanciavano attacchi terroristici dentro i confini dell’Israele, quando la Giordania ancora rivendicava la Cisgiordania e grandi quantità di truppe erano stanziate lungo il confine e la linea di demarcazione con l’Israele, e quando l’Irak si imbarcava in uno sforzo ambizioso di militarizzazione. Oggi, i confini dell’Israele sono molto più sicuri. L’Egitto ha mantenuto il trattato di pace che stabiliva un grande cuscinetto smilitarizzato e monitorato internazionalmente nella penisola del Sinai; l’esercito siriano è indebolito dal collasso del suo mecenate sovietico; l’OLP sostiene il processo di pace; un trattato di pace ha normalizzato i rapporti tra Israele e la Giordania; e le capacità militari irachene di attacco sono state distrutte dalle guerre, dalle sanzioni feroci, dal disarmo monitorato internazionalmente e dall’occupazione statunitense. Eppure continuano a arrivare in Israele alti livelli di aiuti militari.

E’ da notare come le succesive amministrazioni e i capi di entrambi i partiti politici insistono nel dire che gli aiuti statunitensi ad Israele vanno aumentati o “mantenuti ai livelli attuali”. Se il vero obiettivo fosse di fornire un adeguato livello di sostegno alla difesa israeliana, i funzionari americani avrebbero al centro dell’attenzione il mantenimento delle necessità per la sicurezza di Israele e di conseguenza i livelli degli aiuti varierebbero a seconda delle necessità. Ma i veri fabbisogni difensivi d’Israele non sono la principale preoccupazione di Washington.

Il defunto maggiore-generale Matti Peled, ex deputato, segnalò che, per quanto riuscisse a capire, la cifra annuale di 2,2 miliardi di dollari di aiuti militari statunitensi ad Israele all’epoca era una cifra tirata fuori “dal nulla”. Una tale cifra, secondo lui, andava molto al di là di quanto non fosse necessaria ai rifornimenti e non pareva essere collegata a fabbisogni specifici per la sicurezza, rimanendo a livelli costanti per parecchi anni, il che rafforza la sua impressione che gli “aiuti ad Israele” non sono altro che una sovvenzione del governo statunitense ai produttori americani d’armi. Questo beneficio alle aziende americane è moltiplicato dal fatto che ogni grande invio di armi in Israele crea una rinnovata domanda dagli stati arabi – la maggior parte dei quali pagano cash, in petrodollari – di armi americane che possano contrastare l’aumentata capacità militare d’Israele. Infatti, l’Israele annunciò di voler congelare l’export d’armi al Medio Oriente nel 1991, proposta che fu bocciata dalle amministrazioni Bush e Clinton dopo pressioni dall’industria delle armi.

Nel 1993, settantotto senatori scrissero al presidente Bill Clinton chiedendogli di inviare ancora più aiuti militari in Israele da parte degli Stati Uniti. Questi legislatori giustificarono la loro richiesta citando i massicci acquisti d’armi dagli stati arabi, dimenticandosi di notare che l’80% delle armi in questione era di origine statunitense. Se fossero stati veramente preoccupati per la sicurezza israeliana, avrebbero votato di bloccare questi ordini. Ma evidentemente non era quello ciò di cui si preoccuparono. Neanche l’AIPAC si oppose alla vendita di 72 caccia F-15E altamente sofisticati all’Arabia Saudita nel 1992, dal momento che l’amministrazione Bush offrì ancora un altro aumento nella quantità d’armi americane ad Israele in cambio dell’acquiescenza israeliana. Sotto molti aspetti, la politica di aiuti degli USA serve gli interessi sia di Israele che degli autocratici regimi arabi filo-occidentali nel senso che tutti condividono un interesse a frenare il nazionalismo radicale e l’islamismo e conservare lo statu quo nella regione – con la forza militare, se necessario. Inoltre, per gli israeliani, il militarismo arabo serve come scusante per la continuata repressione nei territori occupati e per poter resistere alle richieste di maggiori compromessi territoriali. Per i capi autocratici arabi, il potere militare israeliano serve come scusante per la loro mancanza di democrazia interna e la loro indisponibilità di attuare urgenti riforme sociali e economiche. (Va notato che fino al 1993, gli Stati Uniti si rifiutavano anche di parlare con i palestinesi mentre inviavano attrezzi militari del valore di miliardi di dollari alle autocratiche monarchie arabe nel Golfo Persico che avevano posizioni ben più oltranziste nei confronti di Israele che l’OLP.) La risultante corsa alle armi è stata manna dal cielo per i produttori d’armi americani, le cui speranze per la continuata prosperità ci forniscono una spiegazione plausibile per la politica degli aiuti statunitensi.

Sebbene Mearsheimer e Walt osservino che gli aiuti esteri statunitensi ad Israele ammontino a “circa 500 dollari all’anno per ogni cittadino israeliano”, sembrano ignorare il fatto che praticamente tutti questi aiuti militari vanno direttamente ai mercanti d’armi americani e che gli aiuti economici a malapena ammontano al totale degli interessi che Israele paga ogni anno sui prestiti dalle banche statunitensi per i precedenti acquisti d’armi. In altre parole, i cittadini israeliani non vedono mai quei soldi. Inoltre, per ogni dollaro di aiuti militari statunitensi, i contribuenti israeliani devono pagare tra due e tre dollari per personale, addestramento e parti di ricambio.

La funzione di dare la colpa alla lobby israeliana

Il professore Joseph Massad della Columbia University – un uomo che si trova spesso sotto attacco da parte della lobby israeliana per la sua difesa dei diritti dei palestinesi – sostiene che il fascino dell’argomento di Mearsheimer e Walt è che esso “esonera il governo degli Stati Uniti da ogni responsabilità e ogni colpa che invece meriterebbe per le sue politiche nel mondo arabo”. C’è qualcosa di conveniente e sconfortantemente familiare nella tendenza di attribuire a un presunto gruppo potente e ricco di ebrei la direzione generale della politica statunitense sempre più controversa. Infatti, come le esagerate affermazioni sul potere deglii ebrei in altri momenti della storia, tale spiegazione assolve i veri potenti assegnando le colpe al capro espiatorio di turno. Ciò non vuol dire che Mearsheimer, Walt o altri che esprimono preoccupazioni per il potere della lobby ebraica siano antisemiti, ma il modo in cui questa esagerata visione del potere ebreo sembra riflettere l’antisemitismo storico ci dovrebbe far pensare.

A noi che abbiamo fatto attività lobbistica nella ricerca di una politica estera statunitense più equilibrata per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese ci è stato spesso (e sempre ufficiosamente) detto dai consiglieri dei membri del Congresso – e a volte dagli stessi membri del Congresso – che loro non sono responsabili delle loro votazioni a destra sulle questioni israeliane e palestinesi, perché in realtà sono vittime delle pressioni dalla lobby israeliana. Tali affermazioni, comunque, sono piuttosto insincere e egoiste.

Ad esempio, nel 1991 durante una riunione con un noto componente dello staff del senatore democratico per Washington, il senatore Brock Adams, nella quale ho chiesto delucidazioni sulle precedenti votazioni antipalestinesi del senatore, l’assistente insistette che il senatore adottava tali posizioni solamente per placare i ricchi ebrei che contribuivano alle sue campagne. Se volevo veramente cambiare la posizione del senatore – mi consigliò – avrei dovuto lavorare per la riforma del finanziamento delle campagne elettorali. Nei primi mesi del 1992, il senatore Adams è stato costretto ad abbandonare (in seguito a uno scandalo a luci rosse) il suo tentativo di farsi rieleggere insieme a ogni speranza di farsi eleggere a qualsiasi ufficio in futuro. Nel suo ultimo anno come “senatore zoppo”, comunque, continuava a votare come prima a difesa delle politiche del governo israeliano. In breve, i soldi degli ebrei avevano ben poco a che fare con il suo estremismo antipalestinese. Il suo assistente, come molti suoi colleghi su Capitol Hill, faceva uso cinico del vecchio stereotipo antisemitico di “dare la colpa agli ebrei” piuttosto che ammettere la predilezione per il militarismo di destra del suo datore di lavoro.

Ad oggi, comunque, si sentono ancora alcuni attivisti per la pace e per i diritti umani che citano gli assistenti dei membri del congresso e questi ultimi, come se questi legislatori influenti e (per lo più) ricchi, bianchi, anglosassoni e protestanti fossero vittime innocenti di una cabala funesta di ebrei ricchi e potenti. Opporsi alle politiche israeliane non è antisemitico; ma quando quelli in posizioni di potere utilizzano affermazioni esagerate di influenza ebraica per poter deviare l’attenzione pubblica dalla loro complicità in politiche impopolari, allora sì che siamo vicini all’antisemitismo.

Ancora più preoccupante è il modo in cui assegnare la colpa alla lobby israeliana è stato usato all’estero come modo per scagionare quelli che prendono le decisioni su Israele e sulla Palestina negli USA. Come osserva un altro preminente professore di rapporti internazionali, A.F.K. Organski: “La credenza che la lobby ebraica […] è molto potente ha permesso a quelli che decidono la politica americana di usare ‘l’influenza ebraica’ o la ‘politica interna’ per spiegare le politiche […] che i leaders americani credono atte ad avvantaggiare gli USA, politiche che perseguirebbero in barba dell’opinione degli ebrei al riguardo”. Organski nota inoltre che ogni qual volta che i leaders arabi e europei si dimostrano preoccupati per le posizioni degli USA, “i funzionari USA devono solo alzare le spalle in segno di impotenza, sospirare in segno di dispiacere e spiegare che non è colpa dell’amministrazione, bensì del fatto che essa è costretta a lavorare all’interno dei limiti posti dalle potenti pressioni interne che plasmano le decisioni del Congresso”. Le mie interviste fatte a una mezza dozzina di ministri e vice-ministri degli esteri di stati arabi negli ultimi anni mi hanno convinto che i diplomatici statunitensi abitualmente danno la colpa alla “lobby ebraica” per poter deviare ogni responsabilità del governo statunitense. Questo cinismo ha contribuito all’aumento strepitoso dell’anti-ebraismo nel mondo arabo negli ultimi anni.

Conclusione

Le conseguenze della politica statunitense per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese potrebbero essere tragiche, non solo per I palestinesi e altri arabi, vittime immediate del sostegno diplomatico e della generosità degli aiuti americani ad Israele, ma anche per lo stesso Israele. I destini di altri stati-clienti americani non sono sempre stati positivi. Sebbene diverso sotto molti aspetti, Israele potrebe andare a finire come El Salvador o il Vietnam del Sud, i cui dirigenti fecero causa comune con i progetti globali degli USA in modi che alla fine portarono a inestimabile sofferenza e distruzione diffusa. I leaders israeliani e i loro colleghi in molte organizzazioni sioniste americane ripetono l’errore storico di accettare benefici a breve termine per il loro popolo a rischio di compromettere la sicurezza a lungo termine.

Da molto tempo ormai Washington ha un interesse nel mantere militarmente potente e bellicoso un Israele che dipende dagli Stati Uniti. Una vera pace potrebbe minare questo rapporto. Gli Stati Uniti hanno dunque perseguito una politica che tenta di portare più stabilità nella regione ma che non arriva a includere la vera pace. Washington vuole un Medio Oriente dove l’Israele possa svolgere il ruolo di procuratore per gli interessi militari e economiche statunitensi. E questa simbiosi richiede la soppressione di ogni sfida all’egemonia USA-Israele nella regione.

Richiede anche la soppressione di ogni sfida a questa politica all’interno degli Stati Uniti e non c’è dubbio che la lobby israeliana svolge un ruolo importante in questo contesto. Tuttavia, si tratta soprattutto di una siuazione dove la lobby israeliana lavora su ordine di quelli che fanno la politica estera USA e non vice versa.

Sfortunatamente, l’ordine del giorno di Washington provoca una reazione che in effetti preclude ogni ordine stabile che migliorerebbe gli interessi a lungo termine per la sucurezza nazionale degli Stati Uniti o di Israele, tantomeno la pace o la giustizia. La politica statunitense ha avuto il risultato di dividere gli israeliani dgli arabi, sebbene siano entrambi popoli semitici che adorano lo stesso dio, che amano la stessa terra e che condividono una storia di conquista e oppressione. Il cosiddetto processo per la pace non riguarda la pace bensì la Pax americana. Assegnare la colpa dell’attuale pantano nel Medio Oriente alla lobby israeliana serve solo a inasprire l’animosità reciproca e fa il gioco di divide-et-impera di coloro che nel Congresso e nell’amministrzione hanno l’obiettivo primario e finale non di aiutare Israele ma di far avanzare l’Impero Americano.


Stephen Zunes è un professore di politica e redattore per il Medio Oriente del progetto Foreign Policy In Focus. E’ l’autore di "Tinderbox: U.S. Middle East Policy and the Roots of Terrorism" (Common Courage Press, 2003).

Traduzione dall’inglese di Nestor McNab (nestor_mcnab at yahoo dot co dot uk).
Versione originale in lingua inglese: http://www.fpif.org/fpiftxt/3270

Ulteriori informazioni (in inglese)



This page can be viewed in
English Italiano Deutsch
© 2005-2024 Anarkismo.net. Unless otherwise stated by the author, all content is free for non-commercial reuse, reprint, and rebroadcast, on the net and elsewhere. Opinions are those of the contributors and are not necessarily endorsed by Anarkismo.net. [ Disclaimer | Privacy ]