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Thursday April 12, 2012 19:40 by Paul Bowman - Workers Solidarity Movement
Mentre si spengono le fiamme dell'ultimo round di scontri in Grecia, l'incapacità dei principali media di raccontare la storia dell'attuale crisi dell'Eurozona ci lascia in mezzo all'oscurità proprio come un attimo prima che le molotov illuminassero i TG della sera. Fiscal Compact: fumo & specchiGran parte dello scorso anno è stata attraversata da cicli infiniti di riunioni dei capi europei sulla crisi, seguiti da annunci che questa volta avevano risolto i problemi. Ogni annuncio causava inizialmentre un breve slancio dei mercati, seguito alcune settimane dopo da un altro crollo, come se gli operatori sui mercati avessero scoperto che i politici non avevano risolto un bel niente. Questo ciclo di riunioni si è concluso ai primi di dicembre 2011, quando nell'ultimo incontro sull'eurocrisi si annunciava un nuovo dispositivo, un “Fiscal Compact”, che questa volta avrebbe messo a posto le cose per bene. Da allora le ricorrenti crisi sui mercati sembrano essere andate un po' in remissione. Allora, cos'è questo Fiscal Compact e come ha fatto a calmare i mercati? La prima cosa da comprendere è che non è stato l'annuncio del Fiscal Compact a calmare i mercati. Ciò che ha versato olio sulle acque agitate è stata la decisione della BCE di estendere a tutte le banche private dell'Eurozona un'offerta praticamente illimitata di prestiti a 3 anni. Effettivamente, il ciclo sempre più corto di euro-vertici seguiti da successivi crolli aveva portato ad una crisi semi-nascosta nel mercato dei prestiti interbancari tra le banche europee. Si trattava cioè della stessa ritrosia delle banche a concedersi prestiti a vicenda che aveva innescato il crollo globale del 2007-2008, ma a livello europeo. Alla fine del 2011 era ormai chiaro che il mercato interbancario dell'euro si era più o meno ingrippato. Da qui il drastico ed improvviso intervento della BCE. Tutto l'annuncio del Fiscal Compact, dunque, era per lo più una cortina fumogena per coprire questo intervento d'emergenza della BCE. In sè, il Fiscal Compact, è fondamentalmente il vecchio Patto di Stabilità e Crescita a base di steroidi. Esso diceva che gli stati membri non dovevano avere un deficit annuo superiore al 3% del PIL e che il debito accumulato non avrebbe dovuto superare il 60% del PIL. Il Fiscal Compact intende ripetere questi parametri, ma rendendoli ancora più stringenti fino a ridurre il rapporto deficit/PIL dal 3% allo 0,1% nonché prevedendo che ogni paese dell'Eurozona inserisca nella propria Carta Costituzionale il cosiddetto "freno al debito". Da vari commentatori del mondo politico ed economico sono già state sollevate delle osservazioni sulla stupidità e sull'ipocrisia del Fiscal Compact nonché sulla sua incapacità di impedire il ripetersi del disastro che ci ha precipitati in questa crisi. Ma giova ripeterle. In primo luogo, fino all'inizio della crisi, l'Irlanda registrava un avanzo di bilancio, per cui a livello locale questa misura non sarebbe servita ad evitare la crisi nè allora nè in futuro. In secondo luogo, il primo paese dell'UE ad andare oltre il limite di disavanzo del 3% sul PIL è stata la Germania, che ha dunque il collo alquanto scoperto per poter dare la colpa della crisi a paesi a povera gestione fiscale come il Portogallo, l'Italia, la Grecia, la Spagna e l'rlanda. In terzo luogo, tutti, tranne gli economisti più deliranti, concordano che se da un lato è una buona idea quella di evitare disavanzi pubblici in periodi di crescita, cercare di tagliare i disavanzi pubblici che sorgono naturalmente durante un crollo, a causa del venir meno delle entrate fiscali e dell'aumento dei costi per la disoccupazione, è invece il modo più veloce per trasformare una recessione in una depressione stile anni '30. Per questa ultima ragione, gli statuti di bilancio più equilibrati usati un tutto il mondo prevedono eccezioni alla regola “no deficit” in tempi di recessione. Ma il Fiscal Compact non fa nulla di tutto ciò. Affronta il problema a parole stabilendo che il bersaglio è il deficit "strutturale" e non l'effettivo disavanzo corrente. Ma come calcolare la differenza tra i due, non viene definito da nessuna formula concordata. In pratica, il deficit corrente viene sempre trattato dai politici di destra alla ricerca di tagli come se fosse lo stesso del disavanzo strutturale. Per cui la decisione se il disavanzo corrente di un paese sia da considerare come deficit strutturale o semplicemente "ciclico" passa nelle mani della politica. Alla luce della passata esperienza Euro, questo significa che dipende dal fatto se il paese in questione è la Germania o la Francia, o piuttosto un paese "periferico". Cosa succede adesso? La domanda immediata che abbiamo davanti è se il Fiscal Compact sia da sottoporre a referendum in Irlanda . E' evidente che il Compact è del tutto incapace di prevenire crisi future e potrebbe potenzialmente renderle peggiori, a seconda delle dinamiche di potere agite, se viene usato dal nucleo franco-tedesco per costringere a disastrose politiche distruttrici i paesi più piccoli dell'Eurozona. Così per un paese come l'Irlanda, votare per il Compact sarebbe come per i turchi votare per il Natale. La mancanza di qualsiasi aspetto positivo nel Compact è il motivo per cui ora viene minacciata la leva che consente l'accesso ai fondi di salavataggio. Ma la verità della questione è che il piano di salvataggio esistente è a favore dei detentori di titoli e non della popolazione. In questa luce, la lotta centrale per le persone per difendere i loro livelli di vita ed il futuro dei loro figli è quella di liberarsi del giogo del debito alieno che il salvataggio delle banche ha messo su di noi. In questa lotta, il referendum è un evento collaterale, perché quello che conta è forzare un default su questo debito illegittimo e la strada per fare ciò è quella che passa per il non pagamento di massa nelle nuove tasse e delle decime che la troika ed i capitalisti irlandesi stanno cercando di appenderci al collo, a cominciare dalla tassa sulla casa. Paul Bowman
Articolo tratto da "Workers Solidarity", n° 126, marzo/aprile 2012, giornale del Workers Solidarity Movement. |
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