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Intervista a Cosimo Scarinzi, Coordinatore nazionale CUB

category italia / svizzera | lotte sindacali | intervista author Thursday April 12, 2012 18:28author by L'Internazionale di Lotta di Classeauthor email redazione.linternazionale at artemestieri dot info Report this post to the editors

Sette domande, sette risposte

"Che il sindacalismo di base sia in crisi o in involuzione è uno dei loci communes più diffusi nel milieu libertario. Ho la sensazione che, fatte salve alcune motivazioni sensate di questa valutazione, si fondi su di un errore di fondo. Se si pensa che il sindacalismo di base avrebbe dovuto essere una riedizione del sindacalismo di azione diretta di oltre un secolo addietro per di più mitizzato è ragionevole affermare che ha fallito l'obiettivo."
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Intervista a Cosimo Scarinzi, Coordinatore nazionale CUB


Domande di Guido Barroero e Domenico Argirò, risposte di Cosimo Scarinzi.
G.B. Tu sei un osservatore attento dei fenomeni e dei movimenti che si danno nella società, sia dal punto di vista sociale che sindacale. Che giudizio dai di quello che si sta muovendo oggi? Ti sembra che ci siano elementi nuovi? Mi riferisco nello specifico a forme di trasversalità e di distacco dalla politica tradizionale.

C.S. Un osservatore e, aggiungo, un militante lo sono certamente. Che poi all'attenzione corrisponda la comprensione non sta a me giudicarlo. Detto ciò, sicuramente mi pare evidente che la fiducia nella politica parlamentare è ai minimi storici il che non vuol dire automaticamente, anzi a volte avviene il contrario, che sia senso comune una critica radicale all'esistente. Per un verso possono esservi forme di delega alle tecnostrutture nazionali ed internazionali individuate come le uniche in grado di governare una situazione che sfugge di mano al ceto politico, per l'altro si danno forme di leadership carismatica, penso ad esempio ai 5 Stelle ma non solo, che rinverginano periodicamente la rappresentanza politica. Quello che effettivamente posso rilevare è che, quando il conflitto sociale si dispiega, una relativa autonomia dalle organizzazioni e dalle categorie interpretative tradizionali è più la regola che l'eccezione.

G.B. Sempre relativamente a questi movimenti, si può ipotizzare una crescita, più o meno diffusa, di una coscienza "civile" passibile di trasformarsi in coscienza di classe oppure la loro natura composita li condanna a rimanere, al massimo, stimolo per il miglioramento dell'esistente?

Si tratta di intendersi. In primo luogo dovremmo domandarci perché sempre più spesso si danno movimenti "di cittadini" come il NO TAV, se poniamo l'attenzione sulle "eccellenze", e come mille esperienze diffuse se stiamo al livello medio. Credo che dovremo tenere presente il fatto che ciò che definiamo come economia mista non è un semplice dato economico ma va colto nella sua dimensione propriamente storico sociale. In altri termini, se teniamo ferma la differenza fra modo di produzione capitalistico e relazioni sociali capitalistiche, appare evidente che il capitalismo realmente esistente nelle sue zone centrali di insediamento si fionda su una specifica dialettica fra sfera della produzione e sfera della riproduzione. Si pensi solo alla rilevanza della formazione, della sanità e assistenza ecc. dal punto di vista degli addetti e da quello della rilevanza nella vita quotidiana delle persone. È, quindi, inevitabile che il conflitto sociale si allarghi a sfere che, tradizionalmente, non toccava. Ne consegue che la stessa categoria di conflitto industriale va reinterpretata da questo punto di vista. Dal mio punto di vista non vi è la presenza di "movimenti di cittadini" che potrebbero transcrescere in "movimenti di classe" ma un livello più alto di contraddizioni e di questioni che si pongono al movimento di classe. Il fatto che il terreno del conflitto sia questo non comporta meccanicamente che ve ne sia consapevolezza diffusa, al contrario vi possono essere fenomeni interpretabili come arretramento, frammentazione, corporativizzazione del conflitto. Un paesaggio sociale che va attraversato avendo chiari, il più possibile, dati immediati e prospettive possibili.

G.B. Passiamo al terreno sindacale. Che giudizio dai delle posizioni della CGIL in merito alle riforme Monti e in particolare di quella del mercato del lavoro? Più nello specifico, cosa pensi delle crociate contrapposte sull'art. 18?

Riporto quanto scrivevo recentemente nel merito su Umanità Nova "CISL, UGL e UIL non avranno un gran piacere ad essere trattati da scendiletto ma, come dire?, ci hanno fatto l'abitudine e sanno che, fatta salva qualche opportuna sceneggiata, è il prezzo da pagare al mantenimento di cospicui finanziamenti pubblici e privati e ad un ruolo di collaborazione subordinata continuativa con governo e padronato che garantisce loro un residuo potere sui lavoratori. Per diverse ragioni per la CGIL non è altrettanto facile e spontaneo assumere la medesima attitudine di fondo nelle medesime modalità contingenti. Un più robusto radicamento nell'industria, la presenza di componenti conflittuali, la stessa autostima del gruppo dirigente rendono difficile piegarsi sorridenti. Per di più, assumendo una posizione combattiva, almeno sino ad un certo punto, la CGIL conta di potere tenere sotto controllo aree conflittuali che, laddove fosse troppo acquiescente alla volontà del governo, sarebbero senza controllo."

Direi che quanto sta accadendo conferma la giustezza di quella valutazione. È bene ricordare comunque che la stessa CGIL non ha battuto ciglio sulla manovra sulle pensioni e su quella fiscale. In sostanza, credo vi siano due fatti da tenere presenti:

  1. l'articolo 18 è materia che vede come protagonisti i lavoratori industriali e, in particolare, i meccanici e ciò non è irrilevante;
  2. vi è un'evidente dimensione simbolica dello scontro politico/sindacale in atto il che non toglie nulla alla sua rilevanza di fatto. Solo i cretini dimenticano l'importanza effettuale dei simboli. In estrema sintesi, la CGIL deve, pena la decadenza radicale, dimostrare che conta. Hic rhodus hic salta.
G.B. Già che ci siamo, come valuti l'impatto che avrà sulle relazioni sindacali la riforma Monti-Fornero sul mercato del lavoro?

Va da sé che bisognerà vedere il testo definitivo e, poi, il comportamento delle imprese, la reazione dei lavoratori, il modus operandi della magistratura del lavoro per fare una valutazione non avventata. Mi limito oggi a un aneddoto. Nel corso di una recente manifestazione un giovane compagno della CUB, molto combattivo, mi diceva che riteneva che il primo ad essere licenziato sarebbe stato lui. Ovviamente spero sbagli ma non è questo il punto. Quello che è certo è il fatto che le imprese, poi inevitabilmente si arriverà al settore pubblico, puntano a spostare a proprio vantaggio gli equilibri di potere e che ai lavoratori il segnale è arrivato forte e chiaro. Chi, per qualsivoglia ragione, disturba il manovratore sa cosa rischia, fine della trasmissione. E, aggiungo, nella mia attività quotidiana di organizzatore le ricadute di questo clima sociale sono sin troppo evidenti.

G.B. Del sindacalismo di base che cosa mi dici? L'attuale fase dovrebbe favorire una sua ripresa? Oppure - come sta avvenendo da diverso tempo - proseguirà il suo percorso involutivo?

Che il sindacalismo di base sia in crisi o in involuzione è uno dei loci communes più diffusi nel milieu libertario. Ho la sensazione che, fatte salve alcune motivazioni sensate di questa valutazione, si fondi su di un errore di fondo. Se si pensa che il sindacalismo di base avrebbe dovuto essere una riedizione del sindacalismo di azione diretta di oltre un secolo addietro per di più mitizzato è ragionevole affermare che ha fallito l'obiettivo. Se lo si assume, a mio avviso più realisticamente, come un'espressione, non l'unica né necessariamente la principale, delle tensioni sociali in atto il giudizio è diverso. Vi sono, innegabilmente, luci ed ombre, successi e sconfitte, derive positive e negative. Detto ciò, se guardiamo ad esempio alla manifestazione milanese del 31 marzo ritengo si possa dire che una discreta capacità di mobilitazione c'è e che, piaccia o meno, l'area del sindacalismo di base è una componente importante dell'opposizione all'attuale governo ed è chiaro che una cosa era fare dell'antiberlusconismo a un tanto al chilo, si veda la manifestazione romana del 15 ottobre scorso, ed un'altra tenere ritta la barra su alcuni, precisi, contenuti. Fatto salvo che, come spesso affermo, il futuro riposa sulle ginocchia degli dei, direi che uno spazio di sviluppo e di iniziativa c'è come c'è, non va mai dimenticato, una repressione aziendale e statale forte contro i nostri compagni. Per quanto è affidato alla soggettività, sta a noi lavorare perché cresca in quantità e, mi permetto di ricordarlo, in qualità. Insomma, vedremo e, soprattutto, vivremo quanto avverrà.

G.B. Qualche previsione per l'immediato futuro riguardo all'andamento dello scontro sociale?

Sicuramente oggi si dispiega un doppio processo:

  • una moltitudine, non in senso negriano, di microconflitti, di norma legati alle crisi aziendali ma non solo. Basta, a questo proposito, porre l'attenzione a quanto avviene nel settore della logistica. Un universo sociale da conoscere e di cui dobbiamo cercare di favorire una ricomposizione in avanti;
  • l'esistenza di embrioni di movimento generale su alcune questioni, essenzialmente i diritti. Non ritengo siamo di fronte ad un dispiegarsi adeguato della mobilitazione ma credo che dobbiamo guardarli con rispetto ed attenzione e, soprattutto, essere partecipi di quanto avviene.
È possibile una sintesi superiore di queste due dinamiche? Direi che questa è la scommessa che vale la pena di fare.

Ti ringrazio per le domande acute anche se a volte maliziose che mi hai posto e, in contraccambio, te ne faccio una io. Non pensi che dovremmo leggere quanto avviene in Italia tenendo nella dovuta attenzione un contesto internazionale che vede il radicalizzarsi del conflitto sociale in aree anche a noi vicine? In altri termini, non pensi che, quando guardiamo alla Grecia, alla Spagna ed ad altri contesti, anche de nobis fabula narratur?

G.B. Ovviamente sì, sfondi una porta aperta.

D.A. Un'altra domanda la posso fare io: dando per scontato che l'ideale sarebbe un movimento di classe che si auto organizzi in modo completo e nel quale non ci siano leader di alcun genere, ma al massimo guide funzionali che mettono a disposizione la loro esperienza, dando altresì per scontato che così non è mai stato e che sempre, in ogni rivoluzione o rivolta non estemporanea, ci sono sempre stati "capi" (magari non eccessivamente direttivi, ma pur sempre capi), tu trovi che, nella situazione attuale, nel cosiddetto sindacalismo di base (o meglio alternativo) e nei movimenti sociali (di cittadini o di soggetti di altro genere) ci sia una struttura di leadership) adeguata e capace di interpretare la realtà e di suggerire percorsi di lotta?

Proverò a scomporre la domanda per renderla, almeno per me, più maneggevole.

  1. Nella mia esperienza e per quanto ne so, anche nelle rivolte estemporanee dei capi, uso il termine in senso lato, vi sono. Si tratta di chi ha più energia, carisma, comprensione della situazione, nei casi migliori, capacità manipolatorie nei casi peggiori, con tutte le gradazioni intermedie.

  2. L'ipotesi idealtipica di una pratica autoorganizzativa "pura" deve fare i conti con differenze soggettive effettivamente esistenti, con il fatto che leadership funzionale e leadership carismatica sono difficilmente separabili, con la presenza, piaccia o meno, di soggetti preesistenti al movimento che ne sono comunque parte costitutiva.

  3. L'esempio di leadership funzionale migliore che io conosco è quella del movimento no tav, non perché sia perfetta, perché manchino debolezze, ambiguità, ansie di protagonismo, ma per i caratteri stessi del movimento che rendono impossibile un effettivo e significativo accumulo di potere separato da parte di un gruppo o di una costellazione di gruppi. Il trucco però c'è e si vede e consiste nel fatto che il tasso di partecipazione è alto e che ogni ruolo è rimesso quotidianamente in gioco, per un verso, e in quello che c'è un controllo sociale in senso buono. In pratica ci si conosce e ci si pesa reciprocamente, il che non sarà simpatico ma impedisce il formarsi di una élite di potere dotata dei mezzi per conservare a prescindere ilk ruolo conquistato sul campo.

  4. Venendo al mondo che meglio ho la presunzione di conoscere, non ritengo si possa dare un giudizio generalizzato secco viste le differenze tra i personaggi, le culture politiche di riferimento, i contesti. Ferma restando la necessaria prudenza, credo che il principale problema, da questo limitato punto di vista, dei gruppi dirigenti consiste nel fatto che sono un pezzo di generazione, nel senso di una comunità umana con le medesime esperienze fondative, politica che affonda le proprie radici negli anni '70 e che non mi sembra emergere adeguatamente una nuova leadership prodotta dalle recenti pratiche di lotta e di organizzazione.

8 aprile 2012

Tratto dal sito:
"L'Internazionale di Lotta di Classe"

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