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Manifesto del Comunismo Libertario

category internazionale | movimento anarchico | documento politico author Saturday August 14, 2010 05:07author by Georges Fontenis Report this post to the editors
Come omaggio al compagno Georges Fontenis, scomparso il 9 agosto 2010 all'età di 90 anni, pubblichiamo ora una traduzione aggiornata del suo opera più famoso, il "Manifesto del Comunismo Libertario", basata sulla traduzione a cura dell'Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica, pubblicata nella collana "StoriaDocumenti" a Bari nel 1977 con il titolo "Manifesto dei Comunisti Libertari". Il Manifesto è preceduto dall'introduzione all'edizione originale francese (Manifeste du communisme libertaire. Problèmes essentiels, Paris, Éditions du Libertaire, 1953, 32 p.).
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Introduzione


Nel momento in cui il sistema capitalistico ha raggiunto il suo punto culminante di crisi, nel momento in cui tutte le "ricette" di restauro e le "soluzioni" dello pseudo-comunismo di Stato sono fallite e si rivelano incapaci di risolvere le contraddizioni attuali se non nei termini di miseria, schiavitù, guerra mondiale, ci è sembrato necessario ed urgente sistemare, sotto forma di manifesto, le analisi e le soluzioni comuniste libertarie.

D'altra parte, è da molto tempo che i militanti, imbarazzati di fronte alle domande politiche poste dai simpatizzanti e da tutti coloro che si pongono oggi il problema della rivoluzione sociale, desideravano che venisse redatto questo manifesto che potesse riassumere in poche pagine l'essenziale del Comunismo Libertario, con le precisazioni necessarie su concetti chiave come lo Stato e la rivoluzione.

Nel redigere questo opuscolo, rispondendo alla domanda di tutti i militanti sulla base delle idee essenziali e sulla base dei concetti riconosciuti dai Comunisti Libertari, Georges Fontenis non ha pensato di creare una nuova dottrina.

Ciò che noi presentiamo oggi non è dunque una forma definitiva della teoria del Comunismo autentico, in quanto questa andrà sempre più precisandosi, chiarendosi, perfezionandosi, alle luce delle esperienze e dei fatti storici.

Lo scopo era soltanto quello di dare di questa teoria il riassunto più chiaro, più coerente, il "più a fuoco" possibile, che possa essere conosciuto oggi. In questo scritto c'è l'essenziale del pensiero dei primi fondatori e dei migliori teorici del Comunismo Anarchico: Bakunin, Kropotkin, Malatesta; ci sono a volte, parola per parola, dei passaggi dello "Statuto dell'Alleanza" di Bakunin; c'è tutto ciò che può essere ritenuto di fondamentale nelle idee della "Piattaforma" di Makhno e dei suoi compagni – un insieme di riflessioni ispirate dalla condotta degli anarchici nel corso della Rivoluzione Russa del 1917; ci sono i punti principali e lo spirito del "Patto di Alleanza" e del "Programma" che diedero vita nel 1920 all'Unione Anarchica Italiana; ci sono le tesi difese oggi in Italia dai militanti dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria, fedeli agli insegnamenti di Bakunin e Malatesta; c'è lo spirito delle concezioni del Movimento Anarchico Spagnolo e delle sue esperienze del 1936; c'è infine lo sviluppo dei principi che animano il movimento comunista anarchico rivoluzionario in Francia, così come è uscito dalle complesse lotte di tendenza, soprattutto dopo il 1913, così come è continuato nel movimento francese sino ad oggi, di cui ne sono una testimonianza i suoi principi, i suoi statuti ed il suo orientamento.

Fontenis non si è posto l'intento di essere originale a tutti i costi: egli ha ripreso dei frammenti di articoli dei quaderni "Etudes Anarchistes" o di "Libertaire" in cui aveva tentato di mettere a fuoco alcune parti, come quelle riguardanti le minoranze agenti oppure della violenza rivoluzionaria.

Egli ha voluto soprattutto fare un'opera modesta di sintesi, fare il punto che potesse servire da base teorica solida ai militanti di un'organizzazione rivoluzionari, una messa a fuoco la cui assenza si è fatta spesso sentire e che era molto attesa.

Alcuni possono spaventarsi per il linguaggio usato, ma non bisogna esitare ad usare il linguaggio di tutti, linguaggio che chi legge comprende subito, e che i Bakunin, i Kropotkin, i Malatesta, utilizzavano senza vergogna: partito, linea politica, disciplina sono delle parole che, ben precisate, possono fare paura solo a coloro per i quali il vigore rivoluzionario o il coraggio di fronte alle situazioni e di fronte alle parole sono stati annullati da tutto un "casino" di letteratura e da chiacchiere sentimentali pseudo-anarchiche.

Fontenis ha ritoccato, corretto e precisato, tenendo conto delle osservazioni e delle critiche che gli hanno mosso i militanti, i lettori di "Libertaire", in cui questi problemi essenziali sono apparsi negli ultimi mesi del 1952. Alcuni capitoli.hanno subito dei notevoli ampliamenti, altri invece sono stati rifatti o rimaneggiati.

Dunque, questa piccola opera che rappresenta un lungo lavoro e numerose e delicate messe a punto, sarà uno strumento prezioso per tutti i militanti, il libro-base per tutti coloro che si pongono il problema della rivoluzione sociale proletaria.

La Commissione di edizione

Georges Fontenis

MANIFESTO DEI COMUNISTI LIBERTARI


IL COMUNISMO LIBERTARIO COME TEORIA SOCIALE


E' nel corso del XIX secolo, nel corso dello sviluppo del capitalismo e delle prime grandi lotte operaie e, più precisamente, in seno della Prima Internazionale (dal 1861 al 1871), che appare una dottrina sociale, chiamata "socialismo rivoluzionario" (per reazione contro il socialismo egualitario, riformista o statale) o "socialismo antiautoritario" o "collettivismo", ed in seguito "anarchismo" o "comunismo anarchico" o "comunismo libertario".

Questa dottrina, questa teoria, nasce come reazione dei lavoratori socialisti organizzati. Essa è, in tutti i casi, legata all'esistenza dell'antagonismo di classe, che si va accentuando. Essa è un prodotto storico, nasce in presenza di determinate condizioni della storia, di sviluppo della società di classe, e non dalla critica idealista di alcuni pensatori.

Il ruolo dei fondatori della dottrina, di Bakunin principalmente, fu quello di esprimere le aspirazioni sincere delle masse, le loro reazioni, le loro esperienze, e non di creare artificialmente una teoria appoggiandosi su un'analisi astratta, puramente ideale o su delle teorie anteriori; Bakunin e con lui James Guillame, in seguito Kropotkin, Reclus, J. Grave, Malatesta, ecc., partono dall'osservazione delle condizioni e delle forme di organizzazione e di lotta delle associazioni dei lavoratori e delle masse contadine.
L'origine di classe dell'anarchismo è incontestabile. Come mai allora così spesso l'anarchismo è stato considerato come una filosofia, una morale o etica staccata dalla lotta di classe, quindi come un umanesimo staccato dalle condizioni storico-sociali?

Noi questo ce lo spieghiamo attraverso molteplici motivi: da una parte, i primi teorici anarchici hanno cercato qualche volta di riferirsi alle opinioni di scrittori, di economisti, di storici che li hanno preceduti, Proudhon soprattutto (del quale molti scritti mostrano incontestabilmente delle concezioni anarchiche).

A volte i teorici che li hanno seguiti, allo stesso modo, hanno ritrovato presso degli scrittori come la Boetie, Spencer, Godwin, Stirner, ecc., dei pensieri che avevano una analogia con l'anarchismo, nel senso che essi manifestavano una opposizione alle forme di sfruttamento e ai principi di dominazione che scoprivano nella società.

Ma le teorie di Godwin, Stirner, Tucker sono unicamente delle riflessioni sulla società senza tener conto della storia e delle forze che la determinano, senza tener conto delle condizioni oggettive che pongono il problema della rivoluzione.

D'altra parte, in tutte le società basate sullo sfruttamento e il dominio, sono sempre esistiti dei gesti di rivolta individuali o collettivi, taluni con un contenuto comunista e federalista e realmente democratico, per cui si è giunti a considerare qualche volta l'anarchismo come lotta eterna degli uomini verso la libertà e la giustizia. Concetto vago, insufficientemente fondato sul piano sociologico o storico, tendente ad assimilare l'anarchismo ad un vago umanesimo, basato su nozioni astratte, di umanità e di "libertà".

Agli storici borghesi del movimento operaio è sempre piaciuto mischiare il comunismo anarchico con le teorie individualistiche ed idealiste, ed essi sono in gran parte responsabili della confusione che hanno creato avvicinando Stirner a Bakunin.

Si è qualche volta giunti, dimenticando le condizioni di nascita dell'anarchismo, a ridurlo ad una specie di super-liberalismo, facendogli perdere il suo carattere materialista, storico e rivoluzionario.

Ma, in ogni modo, se le rivolte anteriori al XIX secolo e le riflessioni di alcuni pensatori sulle relazioni che intercorrono tra gli uomini e le classi sociali, hanno preparato l'anarchismo, questo esiste come teoria rivoluzionaria solo a partire da Bakunin.

Certo, le raccolte e gli scritti anteriori, ai quali ci si rifà, sono nati anch'essi per il fatto di esserci lo sfruttamento di categorie sociali da parte di altre. Le opere di Godwin, per esempio, esprimono bene l'esistenza della società di classe, ma in modo idealista, confuso. L'alienazione dell'uomo dal gruppo, dalla famiglia, dalla religione, dallo Stato, dalla morale, ecc. è senz'altro di natura sociale, è senz'altro l'espressione di una società divisa in caste o in classi.

Si può dire che attitudini, riflessioni, modi di agire, che noi possiamo qualificare come di rivolta, non conformiste, anarchiche, nel senso vago del termine, sono sempre esistite.

Ma la formulazione coerente di una teoria comunista-anarchica risale alla fine del XIX secolo e si persegue ogni giorno, si precisa, si perfeziona con l'apporto dell'esperienza storica.

L'anarchismo non può dunque essere assimilato ad unafilosofia o ad un'etica astratta ed individualistica.

Esso è nato nel e dal sociale, ed è stato necessario attendere un periodo storico determinato e un certo stato dell'antagonismo di classe, affinché le aspirazioni comuniste-anarchiche si manifestassero chiaramente, affinché il fenomeno della rivolta sfociasse in una concezione rivoluzionaria coerente e completa.

L'anarchismo, non essendo una filosofia o un'etica astratte, non può rivolgersi all'uomo in astratto, all'uomo in generale. Per l'anarchismo non esiste in questa società l'uomo senza aggettivi, "tout court"; c'è l'uomo sfruttato appartenente alla classe degli sfruttati e c'è l'uomo delle classi privilegiate, della classe dominante. Rivolgersi all' "uomo" è cadere nell'errore e nel sofisma dei liberali che si rivolgevano al "cittadino" senza tener conto delle condizioni economiche e sociali dei cittadini.

Rivolgersi all'uomo in generale, dimenticando l'esistenza delle classi e delle lotte di classe, dando sfogo a delle declamazioni retoriche e vuote sulla libertà, sulla giustizia in generale, con le maiuscole, significa permettere a tutte le filosofie borghesi, in apparenza liberali, ma in realtà conservatrici e reazionarie, di penetrare nell'anarchismo, di pervertirlo in un vago umanitarismo, di castrarne la teoria, l'organizzazione e i militanti.

E' agli sfruttati, ai proletari, alle masse operaie e contadine che si rivolge l'anarchismo, teoria sociale e metodo rivoluzionario, perché solo la classe sfruttata, in quanto forza sociale, è un fattore rivoluzionario.

Vogliamo dire con ciò che la classe dei lavoratori è una classe-messianica, che gli sfruttati posseggono una provvidenziale chiaroveggenza, tutte le qualità e nessun difetto? Sarebbe cadere nell'idolatria operaia, in una metfisica di nuovo genere.

Ma la classe sfruttata, alienata, frustrata, il proletariato, in senso lato, inglobando allo stesso tempo la classe operaia propriamente detta (composta da operai manuali aventi una stessa psicologia, una stessa maniera di essere e di pensare) ed altri salariati come gli impiegati o ancora, in altri termini, l'insieme di quegli individui che svolgono delle mansioni esecutive nella produzione e nell'ordine politico, dunque coloro che non prendono parte alla gestione; solo questa classe quindi può, per la sua condizione economica e sociale, sovvertire il potere e lo sfruttamento. Solo i produttori possono realizzare la gestione operaia, e che cosa è la rivoluzione se non un passaggio della gestione a tutti i produttori?

Il proletariato è dunque la classe rivoluzionaria per eccellenza, non solo, ma la rivoluzione che essa può fare è una rivoluzione sociale e non politica, con cui emancipando se stessa, emancipa tutta l'umanità; liquidando il potere della classe dominante, essa sopprime le classi.

Senza dubbio nella società attuale le classi non hanno limiti precisi.

E' nel corso dei diversi episodi della lotta di classe che si fa la separazione. Non ci sono limiti precisi, ma esistono due poli: proletariato e borghesia (capitalisti, burocrati...); le classi definite medie sono dilacerate nei periodi di crisi e si orientano verso l'uno o l'altro polo; esse sono incapaci per la loro stessa condizione di trovare una soluzione, poiché esse non hanno né le caratteristiche rivoluzionarie del proletariato, né realmente la gestione della società attuale come la borghesia propriamente detta. Si osserva, per esempio, durante gli scioperi, che una parte dei tecnici (soprattutto quelli che sono nei fatti degli specialisti, quelli dei servizi di studio, per esempio) si avvicina alla classe operaia, mentre un'altra parte di tecnici, che ricoprono il ruolo dei quadri, e una grande parte dei capi si allontana dalla classe operaia, almeno per un periodo. La realtà sindacale si rimette sempre all'esperienza, al pragmatismo, sindacalizzando alcuni strati e non altri, seguendo il loro ruolo, la loro funzione. In ogni caso è la funzione e l'ideologia che permettono di caratterizzare una classe, più che la retribuzione.

C'è dunque il proletariato. C'è al suo interno una parte, quella più decisa, la più attiva, la classe operaia propriamente detta. C'è anche qualche cosa di più vasto del proletariato e che comprende altri strati sociali che è necessario coinvolgere nelle azioni: sono le masse popolari che comprendono oltre al proletariato anche i piccoli contadini, gli artigiani poveri ecc.

Non si deve cadere nella mistica del proletariato, ma avere chiaro un dato preciso: che il proletariato, nonostante la lentezza della sua presa di coscienza, i suoi riflessi, le sue disfatte, è in definitiva la sola leva reale della rivoluzione.

Qui non possiamo fare a meno di citare questo testo fondamentale di Bakunin: "Capire che, essendo il proletariato, il lavoratore manuale, il carcerato, è il rappresentante storico dell'ultima schiavitù sulla terra, la sua emancipazione è l'emancipazione di tutti, il suo trionfo è il trionfo finale dell'umanità..." (Opere Complete – tomo IV, pag. 425).

Senza dubbio è possibile che degli uomini appartenenti a categorie sociali privilegiate rompano con la classe di provenienza, con l'ideologia ed i vantaggi di questa classe, ed abbraccino la causa dell'anarchismo. Il loro apporto è considerevole, ma in qualche modo questi uomini diventeranno dei proletari. Per Bakunin, i "socialisti rivoluzionari", cioè gli anarchici, si rivolgono "alle masse operaie tanto delle città quanto delle campagne, comprendendo gli uomini di buona volontà delle classi superiori, che rompendo con il loro passato, vorranno francamente ricongiungersi ad essi e abbracciare interamente il loro programma".

Non si può dire, pertanto, che l'anarchismo si rivolga, come teoria sociale, all'uomo astratto, all'uomo in generale, senza tener conto del suo ambiente di nascita.

Togliere all'anarchismo il suo carattere di classe sarebbe condannarlo all'astrattezza, condannarlo a svuotarsi dei suoi contenuti e diventare un passatempo filosofico inconsistente, una curiosità per borghesi intelligenti, un oggetto di simpatia per un uomo di cuore idealista, un soggetto di discussione accademica. Noi concluderemo dunque che:
  • l'anarchismo non è una filosofia dell'individuo o dell'uomo in generale;

  • l'anarchismo è, se si vuole, una filosofia o un'etica, ma in un senso molto particolare, molto concreto; lo è per le aspirazioni che rappresenta, per gli scopi che si propone e, richiamando una citazione di Bakunin, possiamo concludere dicendo che "il trionfo del proletariato è il trionfo dell'umanità";

  • l'anarchismo è proletario, di classe, per quanto riguarda le sue origini; solo per quanto riguarda i suoi scopi è generalmente umano o se si vuole umanista;

  • esso è una scuola socialista, o meglio, per essere più precisi, il solo socialismo o comunismo, la sola teoria o metodo valido per giungere alla società senza classi e senza caste, realizzando la libertà e l'uguaglianza.
L'anarchismo sociale o comunismo-anarchico o ancora comunismo-libertario è una teoria sociale rivoluzionaria, rivolta al proletariato, di cui rappresenta le aspirazioni, del quale, se si vuole, esso manifesta la teoria; teoria che il proletariato sancisce e riafferma attraverso le esperienze.

IL PROBLEMA DEL PROGRAMMA

L'anarchismo, essendo una teoria sociale, si manifesta attraverso una serie di analisi e di proposizioni che fissano i fini ed i mezzi: cioè attraverso un programma.

E' questo programma che costituisce la piattaforma comune di tutti i militanti di una organizzazione anarchica; piattaforma al di fuori della quale il gruppo si costituirebbe solo su aspirazioni sentimentali, vaghe, confuse; senza programma non ci sarebbe una unità reale di vedute.

Si avrebbe un raggruppamento con lo stesso nome, ma con pensieri diversi, se non opposti.

Si pone allora una questione: il programma può essere una sintesi, tenendo conto di ciò che c'è di comune tra i militanti che si richiamano ad una stessa sigla?

Questo, allora, vorrebbe dire cercare un'unità fittizia, in cui per evitare le opposizioni rimarrebbe in comune solo ciò che non ha importanza: si costruirebbe una forza comune ma poco efficiente. Nel passato, troppe volte si sono tentate sia delle "sintesi" sia delle "unioni", cartelli, alleanze, ma non ne è uscita che l'inefficacia e troppo spesso un ritorno ai conflitti: ponendo la realtà dei problemi ai quali ciascuno apportava soluzioni differenti od opposte, i conflitti riapparivano insieme alla vanità ed all'inutilità di uno pseudo-programma comune, che di fatto significava "rifiutarsi di agire".

D'altra parte l'idea stessa di far sorgere un programma già fatto, con la ricerca dei piccoli punti in comune, suppone che tutti i punti di vista proposti siano giusti, che un programma può uscire dai cervelli, in astratto.

Ora un programma rivoluzionario, il programma anarchico, non può essere creato da alcuni uomini per essere imposto alle masse.

E' l'inverso che si deve avere. Il programma dell'avanguardia rivoluzionaria, minoranza agente, non deve essere che l'espressione rimaneggiata e vigorosa, chiara, resa cosciente ed evidente, delle aspirazioni delle masse sfruttate, chiamate a fare la rivoluzione. In altri termini, la classe prima del "partito".

Ciò che deve determinare il programma è dunque lo studio, l'esperienza, la tradizione stessa di ciò che è fermamente nelle aspirazioni delle masse. C'è dunque nell'elaborazione del programma un certo "empirismo", evitando il dogmatismo, evitando la sostituzione di uno schema elaborato da un piccolo gruppo rivoluzionario a ciò che è stato indicato dall'azione, dalla coscienza delle masse.

A sua volta, il programma elaborato, portato a conoscenza delle masse, non può che sviluppare la loro coscienza. Infine il programma così definito può essere modificato nella misura in cui procede l'analisi della situazione e delle tendenze delle masse, e quindi può essere formulato in termini più giusti e più chiari.

Così fatto, il programma non può essere l'insieme dei punti secondari che uniscono (o meglio che non separano ) uomini che possono credersi vicini, ma è un insieme di analisi e proposizioni alle quali si rifanno solo coloro che le approvano e si incaricano di propagandarlo e di realizzarlo.

Qualcuno può dire che è necessario che questa piattaforma sia elaborata, redatta da qualcuno o da "un'equipe". Senza dubbio: poiché non si tratta di un programma qualsiasi, ma del programma dell'anarchismo sociale in cui non saranno accettate che quelle proposizioni concordanti con gli interessi e le aspirazioni, la coscienza e le capacità rivoluzionarie degli sfruttati. Solo così si può parlare veramente di sintesi, perché non si tratta di eliminare delle cose importanti che dividono, ma si tratta di sintetizzare in un modo nuovo delle nuove proposizioni che possano fondersi con l'essenziale. E' questo il ruolo delle riunioni di studio, delle assemblee, dei congressi dei rivoluzionari: cioè quello di riconoscere un programma, di riunirsi e di fondare la loro organizzazione su questo programma.

Il dramma è che più organizzazioni pretendono di rappresentare la classe operaia, tanto le organizzazioni socialiste riformiste o comuniste autoritarie, quanto l'organizzazione anarchica. Solo l'esperienza può verificare, può dare in definitiva ragione agli uni o agli altri.

Non c'è una rivoluzione possibile, senza che le masse rivoluzionarie si raggruppino su una certa unità ideologica, senza che esse agiscano ed operino con lo stesso fine, nello stesso senso. Ciò significa che, per noi, le masse – attraverso la loro esperienza – troveranno la via del comunismo libertario. Ciò significa che la teoria anarchica non è mai chiusa per ciò che riguarda i suoi punti di dettaglio, di applicazione, e che essa si elabora e si completa in ogni istante in funzione delle esperienze storiche.

Sembra che delle esperienze parziali, come la Comune di Parigi, la Rivoluzione Russa del 1917, la Makhnovicina, le realizzazioni della Spagna, gli scioperi, alla classe operaia non sia rimasta che l'esperienza – conosciuta sulla propria pelle – del socialismo di stato, totale e parziale (dopo la Russia sino alla nazionalizzazione e ai tradimenti dei partiti politici dell'occidente); eppure proprio queste esperienze ci permettono di affermare che il programma anarchico, con tutte le modificazioni di cui è suscettibile, rappresenta la direzione nella quale è possibile costruire l‘unità ideologica delle masse.

Per cui oggi ci accontentiamo di riassumere questo programma così: la società senza classi e senza Stato.

RAPPORTO TRA LE MASSE E L'AVANGUARDIA

Abbiamo visto, parlando del programma, qual è la nostra concezione generale del rapporto tra la classe sfruttata e l'organizzazione rivoluzionaria definita per mezzo del programma (vale a dire il partito nel senso puro del termine).

Ma noi non possiamo accontentarci di dire: "la classe prima del partito". E' necessario sviluppare, spiegare perché la minoranza agente è necessaria, senza che per questo diventi uno stato maggiore, una dittatura sulle masse. In altri termini è necessario mostrare come la concezione anarchica delle minoranze agenti non ha niente di aristocratico, niente di oligarchico, nulla di gerarchico.

I – Necessità dell'avanguardia

Esiste una concezione che considera l'iniziativa spontanea delle masse sufficiente a coprire tutta la possibilità rivoluzionaria.
E' vero che la storia ci mostra un certo numero di fatti, che noi possiamo considerare come dei movimenti di massa spontanei; e questi fatti sono preziosi perché essi dimostrano le capacità e le risorse delle masse.

Ma certamente non ci porta affatto ad accettare una posizione fatalista della spontaneità. Questo mito porta ad una demagogia populista, all'apologia di un ribellismo senza principi, a volte reazionario, all'attendismo ed alla capitolazione.

All'opposto noi troviamo una concezione puramente volontaristica, che vede l'organizzazione d'avanguardia come unica depositaria dell'iniziativa rivoluzionaria. Tale concezione conduce ad una valutazione pessimista del ruolo delle masse, porta al disprezzo aristocratico della loro capacità politica, ad una condotta astratta dell'azione rivoluzionaria e di conseguenza alla disfatta. Questa concezione contiene in embrione la controrivoluzione burocratica e statale.

Di contro, troviamo la concezione spontaneista: cioè quella teoria secondo la quale le organizzazioni di massa, come ad esempio i sindacati, non solo sono sufficienti a se stessi, ma sarebbero sufficienti a tutto. Questa concezione, che si dice assolutamente antipolitica, è – nei fatti – una concezione economicista. Essa si esprime spesso sotto la forma di un "sindacalismo puro". Ma noi facciamo rimarcare che se la teoria vuole avere una tenuta, è necessario che i suoi partigiani si astengano dal formulare qualsiasi programma, qualsiasi finalità, altrimenti si costituirebbe una organizzazione ideologica, che dando la linea, agirebbe da stato maggiore.

Dunque, questa teoria non è coerente, se non limitandosi ad una concezione socialmente neutra ed empirica dei problemi sociali.
Ugualmente distanti dallo spontaneismo come dall'empirismo e dal volontarismo, noi propugnamo la necessità della organizzazione rivoluzionaria anarchica specifica e la concepiamo quale avanguardia cosciente ed attiva delle masse popolari.

II – Ruolo dell'avanguardia rivoluzionaria

Incontestabilmente, l'avanguardia rivoluzionaria esercita un ruolo di orientamento e di direzione di fronte al movimento delle masse. A questo proposito ogni polemica è vana: quale altra utilità potrebbe infatti avere un'organizzazione rivoluzionaria?

La sua stessa esistenza attesta il suo carattere di direzione e di orientamento. La vera questione è sapere come è concepito questo ruolo, quale senso diamo noi alla parola "direzione".

L'organizzazione rivoluzionaria nasce per il fatto che i lavoratori più coscienti ne sentono la necessità di fronte allo sviluppo ineguale ed alla insufficiente coesione delle masse. Ciò che è necessario precisare è che l'organizzazione rivoluzionaria non deve costituire un potere sulle masse; il suo ruolo di guida deve concepirsi come diretto a formulare e ad esprimere un orientamento ideologico, organizzativo, tattico; un orientamento precisato, elaborato, adattato sulla base delle aspirazioni e delle esperienze delle masse. Così, le direttive dell'organizzazione non sono degli imperativi esterni, ma l'espressione riflessa delle aspirazioni complessive e generali delle masse popolari. La funzione direttiva dell'organizzazione rivoluzionaria, in assenza di qualsiasi possibilità coercitiva, non può esercitarsi che sforzandosi di far trionfare la sua ideologia, ottenendo che gli strati popolari si impregnino profondamente dei suoi principi teorici e delle sue direttive tattiche. Questa è una lotta di idee e di esempio. E se non si dimentica che il programma di una organizzazione rivoluzionaria, la via ed i mezzi che essa indica, sono il riflesso delle aspirazioni e delle esperienze delle masse, che l'avanguardia organizzata è in fondo lo specchio della classe sfruttata, si comprende allora che la "direzione" non è "dittatura", ma un "orientamento coordinato"; con cui l'avanguardia organizzata si oppone alla manipolazione burocratica delle masse, al caporalismo, al gregarismo, e che essa deve darsi per permettere lo svilupparsi della capacità politica diretta delle masse, poiché l'obiettivo è sviluppare la capacità di auto-organizzazione delle masse. Questa concezione della direzione è dunque insieme naturale ed educatrice. Allo stesso modo, all'interno dell'organizzazione, i militanti più preparati e più formati esercitano, verso gli altri militanti, un ruolo di guida, di educatori, con il fine che tutti divengano militanti solidamente formati e sempre svegli, tanto sul piano teorico quanto sul piano pratico, affinché tutti diventino a loro volta delle avanguardie per, con e tra le masse.

La minoranza organizzata è l'avanguardia di un'armata molto più numerosa, e trae la sua ragion d'essere dall'esistenza di questa armata: le masse. Se la minoranza agente, l'avanguardia, si stacca dalle masse, essa non può più esercitare la sua funzione, essa diventa un clan o un club.

La minoranza rivoluzionaria non può essere, in ultima analisi, che la "serva" degli oppressi. Essa ha delle enormi responsabilità, ma nessun privilegio.

Un altro aspetto della natura della minoranza rivoluzionaria è la permanenza: ci sono dei periodi in cui la minoranza incarna ed esprime una maggioranza che tende a riconoscersi nella minoranza agente, ma ci sono dei periodi di riflusso nel corso dei quali la minoranza rivoluzionaria non è che un'isoletta nella tempesta. Essa, allora, deve conservarsi, per poter rapidamente inserirsi tra le masse, qualora le circostanze ridivengano favorevoli; anche se isolata e staccata dalle proprie basi popolari, essa deve mantenere il suo programma contro venti e mareggiate. Essa può anche essere costretta a certi atti isolati, destinati a risvegliare le masse (attentati, insurrezioni). La difficoltà, allora, sta nel rischio di estraniarsi dalla realtà, di trasformarsi in setta, in stato maggiore autoritario, di svuotarsi vivendo di schemi, o di tentare di agire senza essere compresa, spinta o seguita dalle masse popolari. Per evitare queste degenerazioni è necessario essere sempre in contatto con gli avvenimenti, con i luoghi degli sfruttati, essere attenti alle minime reazioni, alle minime rivolte o realizzazioni, studiare minuziosamente la situazione del momento, le contraddizioni, i punti deboli, le possibilità di evoluzione. Partecipando a tutte le forme di resistenza e di azione (che possono portare, secondo le condizioni, alla rivendicazione di un sabotaggio, alla resistenza passiva, alla rivolta), la minoranza può guardare alla possibilità di sviluppare ed orientare anche i più piccoli movimenti.

Sforzandosi di mantenere o di acquistare una visione generale e panoramica dei fatti sociali e della loro evoluzione, adottando le tattiche appropriate alla condizione del momento, ed essendo presente, la minoranza resta fedele alla sua missione; così facendo, evita di trascinarsi in coda agli avvenimenti, di diventare un apparato esteriore ed estraneo al proletariato, di essere sorpassata. Evita di assumere calcoli e schemi puramente astratti, per far sue le aspirazioni vere del proletariato. Essa mantiene il suo programma, lo rivede e ne corregge gli errori dopo l'esperienza. Quali che siano le circostanze, la minoranza non deve mai dimenticare che il suo scopo supremo è di scomparire, identificandosi con le masse, quand'esse siano giunte al più alto grado di coscienza, durante la realizzazione rivoluzionaria.

III – Sotto quali forme si esercita il ruolo della avanguardia

Praticamente, l'influenza dell'organizzazione rivoluzionaria può esercitarsi sulle masse in due modi: esiste il lavoro negli organismi di massa costituiti ed il lavoro diretto di propaganda. Questo secondo tipo di attività si esercita per mezzo della stampa, con campagne di agitazione e rivendicazioni, col dibattito culturale, con le campagne di solidarietà, le manifestazioni commemorative, le conferenze, i meeting; e questo lavoro diretto – che può qualche volta compiersi nel corso di attività organizzate da altri – è indispensabile per affermarsi e per toccare certi settori dell'opinione pubblica, altrimenti inaccessibili. Questo lavoro è di primaria importanza sul luogo di lavoro e sul territorio. E, in realtà, non pone grossi problemi rispetto al come evitare che la "direzione" degeneri in "dittatura". Invece, ben altri aspetti ha il lavoro all'interno degli organismi di massa costituiti. Prima di tutto: in cosa consistono questi organismi?

Questi organismi sono generalmente di natura economica, fondati sulla solidarietà sociale dei loro membri. Ma le loro funzioni possono essere molteplici: difensiva (resistenza, mutua assistenza), educativa (palestra di autogoverno), offensiva (rivendicazioni sul piano tattico, espropriazioni sul piano strategico), gestionaria. Questi organismi, sindacati, comitati di lotta operai o altro, anche quando assolvano solo ad una delle funzioni possibili, sono molto interessanti per il lavoro diretto fra le masse.

A fianco degli organismi economici, esiste una moltitudine di organismi popolari, attraverso i quali l'organizzazione politica può realizzare il contatto con le masse. Si tratta, per esempio, di organizzazioni culturali, sportive, di assistenza, in cui l'organizzazione specifica può trovare energie, suggerimenti, esperienze e su cui può estendere la sua influenza, portando il suo orientamento. Occorrerà lottare contro gli scopi di egemonia e di controllo dello Stato e dei politicanti, bisognerà difendere il carattere proprio di questi organismi, per farne dei centri di autogoverno e di mobilitazione rivoluzionaria in cui far maturare i germi della nuova società, perché gli elementi della società di domani esistono già nella società di oggi.

In tutte queste organizzazioni di massa, economiche e sociali, deve esercitarsi e rinforzarsi l'influenza dell'organizzazione politica, e non per mezzo di un sistema di decisioni esterne, ma attraverso la presenza attiva e coordinata dei militanti anarchici rivoluzionari in questi organismi e nei posti di responsabilità ai quali essi sono normalmente chiamati in base alle loro capacità ed attitudini. Il militante non deve lasciarsi chiudere in funzioni puramente amministrative che lo impegnino tutto il tempo, senza avere lo spazio per esercitare una reale influenza politica. Infatti, gli avversari politici tentano spesso di "imprigionare"i militanti rivoluzionari in compiti di ufficio.

Questo lavoro di "infiltrazione", come direbbero alcuni, deve tendere a trasformare l'organizzazione specifica da minoranza a maggioranza, almeno dal punto di vista dell'influenza.

L'organizzazione specifica deve tendere ad evitare ogni monopolio che finirebbe per far assorbire tutti i doveri – anche quelli propri dell'organizzazione specifica – all'organizzazione di massa, o – al contrario – di attribuire ai membri dell'organizzazione specifica, in una maniera esclusiva, la direzione degli organismi di massa, mettendo da parte tutte le altre componenti. A questo proposito è necessario precisare che l'organizzazione specifica deve promuovere e difendere l'organizzazione di massa, non solamente come struttura con un funzionamento democratico e federalista, ma anche come "struttura aperta" che faciliti l'accesso agli organismi di base di tutti gli elementi non ancora organizzati. E' nostro interesse che queste organizzazioni acquistino nuove forze sociali e sviluppino il loro carattere rappresentativo, poiché sono in gran parte adatte a consentire il massimo contatto dell'organizzazione specifica con le masse.

PRINCIPI INTERNI DELL'ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIA O PARTITO

Ciò che abbiamo detto del programma, del ruolo e delle forme dell'attività dell'avanguardia significa chiaramente che questa avanguardia deve essere organizzata. Come?

I – Unità teorica

Per agire è necessario un insieme di idee coerenti. Le contraddizioni, le esitazioni, impediscono ogni incisività politica. D'altra parte, la "sintesi", o meglio un agglomerato di idee disparate, non avendo in comune che punti senza importanza reale, non può produrre che confusione e non può impedire che quasi subito le divergenze, che sono poi essenziali, vengano alla luce.

Al di fuori delle ragioni che abbiamo visto nell'analisi del problema del programma, al di fuori delle profonde ragioni teoriche sulla natura di questo programma, esistono anche delle ragioni molto pratiche che richiedono l'unità teorica, come base di un'organizzazione degna di questo nome.

L'espressione di questa teoria comune ed unica può essere il frutto di una sintesi, ma in questo caso, solo nel senso della ricerca di una espressione unica di idee sostanzialmente vicine, dunque essenzialmente comuni.

L'unità teorica è data dal programma così come noi lo abbiamo definito precedentemente e che definiremo più avanti: un programma comunista-libertario che esprime le aspirazioni generali delle masse sfruttate.

Precisiamo ancora che l'organizzazione specifica non è il riunirsi o il mettersi d'accordo tra individui, a partire da posizioni ideologiche particolari ed artificiali. Essa nasce e si sviluppa in modo organico e naturale, poiché corrisponde a un bisogno reale e ad un certo numero di dati programmatici non creati in modo astratto, ma che devono riflettere ed esprimere le aspirazioni storiche, profonde, degli sfruttati. L'organizzazione ha dunque una base di classe, anche se ammette gli individui usciti dalle classi privilegiate e in qualche modo da queste respinti.

II – Unità di tattica, metodo collettivo d'azione

Sulla base del programma, l'organizzazione determina un orientamento tattico comune. E' ciò che permette di trarre i frutti dell'organizzazione: continuità e costanza nel lavoro, compensazione delle debolezze di alcuni con la capacità e le forze di altri, concentrazione degli sforzi, economia delle forze, possibilità di rispondere in ogni momento alle necessità, alle occasioni, con il massimo dell'efficienza. L'unità tattica evita lo sparpagliarsi, evita nel movimento l'effetto nefasto di più tattiche che si oppongono le une alle altre.

E' a questo proposito che si pone il problema della determinazione della tattica. Per ciò che concerne la teoria, il programma fondamentale, i principi, non ci sono problemi: essi sono riconosciuti all'unanimità dall'organizzazione. Se ci sono delle divergenze sull'essenziale, c'è la scissione. Il nuovo venuto accetta questi principi base, che non possono essere modificati, se non, per accordo unanime, al prezzo di una separazione.

E' tutto diverso per la questione della tattica. L'unanimità può essere perseguita, ma solo fino al punto in cui, per realizzarsi, non debba andare a mettere d'accordo tutti senza decidere niente: gli accordi neri/bianchi non lasciano sussistere che la carcassa vuota di una organizzazione, priva di sostanza e senza utilità, dato che l'organizzazione ha proprio lo scopo di coordinare le forze verso uno stesso fine. E' necessario dunque ammettere che quando tutti gli argomenti a favore di ogni posizione sono stati espressi, quando la discussione non può più essere utilmente prolungata, quando le opinioni vicine e fondamentalmente identiche si sono fuse, e resta un'opposizione irriducibile tra le tattiche proposte, l'organizzazione deve trovare una via d'uscita. Non ne esistono che quattro possibili:

a) Non decidere niente, dunque non agire, e allora l'organizzazione perde ogni motivo di esistere.

b) Accettare delle tattiche differenti, lasciare ciascuno sulle proprie posizioni. L'organizzazione può ammetterlo in alcuni casi limite, su punti di non vitale importanza.

c) Consultare l'organizzazione tramite un referendum che permetta di stabilire una maggioranza; e la minoranza, avendo accettato di rinunciare al suo punto di vista nell'azione pubblica, si riserva di continuare a svilupparlo all'interno dell'organizzazione, stimando di dover porre a verifica il punto di vista della maggioranza. Qualcuno, qualche volta, invocherà la mancanza di obiettività in questo processo: il numero non significa per forza la verità, ma è il solo criterio possibile. Non manifesta alcuna tendenza coercitiva, poiché è applicabile solo ai membri dell'organizzazione che l'accettano come regola e che la minoranza accetta come una necessità, permettendo di verificare le posizioni tattiche maggioritarie.

d) Quando tra maggioranza e minoranza si rivela impossibile un'intesa su un punto capitale che esige una presa di posizione dell'organizzazione, allora la scissione si produce in maniera naturale ed inevitabile.

In ogni caso, si cerca di realizzare un'unità tattica e, d'altronde, senza questa ricerca, i congressi non sarebbero che dei confronti senza risultati e senza utilità pratica. Questo perché, la prima soluzione possibile (a), cioè non decidere niente, è da rigettare in ogni caso, la (b), cioè ammettere più tattiche, non può essere che un caso eccezionale.

Beninteso, solo le assisi in cui l'organizzazione è rappresentata nella sue interezza (conferenze, congressi, etc.) possono deliberare sulla linea tattica da stabilire.

III – Azione collettiva e disciplina

Una volta che è stata decisa una linea tattica, si pone il problema di come applicarla. E' chiaro che se l'organizzazione ha stabilito una linea d'azione collettiva, lo ha fatto affinché l'attività militante di ogni compagno e di ogni gruppo dell'organizzazione siano conformi a questa linea. Nei casi in cui si sono formate una maggioranza ed una minoranza, ma le due parti hanno deciso di continuare il lavoro in comune, nessuno può considerarsi vessato, poiché ciascuno ha accettato questa forma di attività e ha partecipato all'elaborazione della linea. Questa disciplina liberamente accettata non ha niente in comune con il caporalismo, con l'obbedienza passiva a degli ordini. Non c'è nessun apparato di coercizione per far accettare un punto di vista non condiviso da tutta l'organizzazione: c'è solamente il rispetto degli impegni liberamente presi, allo stesso modo per la minoranza come per la maggioranza. Beninteso, i militanti e le differenti parti dell'organizzazione possono prendere delle iniziative, ma solo nella misura in cui esse non entrino in contraddizione con gli accordi presi e le misure prese dagli organismi "regolari", cioè se queste iniziative sono di fatto l'applicazione delle decisioni collettive e riguardino attività di dettaglio; invece quando esse impegnano l'organizzazione intera, ciascun militante deve consultare l'organizzazione per mezzo dei suoi organi rappresentativi e di collegamento. Dunque, attività collettiva e non attività decise personalmente da militanti "separati", presi singolarmente.

Così, ciascun militante partecipa all'attività di tutta l'organizzazione come l'organizzazione è responsabile dell'attività rivoluzionaria e politica di ciascuno dei suoi militanti, poiché questi non agiscono sul piano politico sena consultare l'organizzazione.

IV – Federalismo o democrazia interna

Al contrario del centralismo, che è la sottomissione cieca delle masse ad un centro, il federalismo permette – a seconda dei casi – le centralizzazioni necessarie e la libera determinazione di ciascun militante ed il suo controllo sull'insieme. Il federalismo non impegna i partecipanti che su ciò che hanno in comune.

Quando unisce dei gruppi fondati sull'interesse materiale, il federalismo trova ragione della sua esistenza su un fatto concreto, ma la base di questa unità può qualche volta essere debole. E' questo il caso di alcuni settori dell'azione sindacale. Ma nell'organizzazione rivoluzionaria anarchica, si tratta di un programma che rappresenta le aspirazioni generali delle masse: la base di unione (i principi, i programmi) è più importante delle differenziazioni, e più che parlare di una unità molto forte di fatto o su contratto, è necessario parlare di unità funzionale, organica, naturale.

Il federalismo non deve essere inteso come il diritto di manifestare le fantasie personali, senza tenere conto degli obblighi contratti verso l'organizzazione.

Significa, invece, che l'accordo concluso tra i militanti ed i gruppi in vista di uno scopo comune, è frutto di libero intento e di azione meditata.

Un tale accordo sottintende – da una parte – che i partecipanti compiano nel modo migliore i doveri accettati e si conformino alle decisioni prese in comune; dall'altra, che gli organi di coordinamento ed esecutivi siano designati e controllati da tutta l'organizzazione nelle sue assemblee e nei suoi congressi, dal momento che i loro compiti dovrebbero essere stati fissati con precisione.

Sono dunque queste le basi su cui può esistere un'organizzazione anarchica efficace:
  • Unità teorica
  • Unità tattica
  • Azione collettiva e disciplina
  • Federalismo.

author by Georges Fontenispublication date Sat Aug 14, 2010 05:51author address author phone Report this post to the editors

PROGRAMMA COMUNISTA LIBERTARIO

1. Gli aspetti della dominazione borghese: il Capitalismo e lo Stato

E' necessario, prima di indicare gli scopi e le soluzioni del Comunismo Libertario, esaminare, nelle grandi linee, di fronte a quali avversari ci troviamo.

Per quello che ci è dato di conoscere dalla storia dell'umanità, noi osserviamo che da quando la società umana è divisa in categorie (in particolare a causa della divisione del lavoro sociale), con antagonismi tra le classi sociali, esistono rivendicazioni e rivolte, come catena di lotte per una vita migliore ed una società più giusta.

L'analisi anarchica considera che la società del nostro tempo, come tutte quelle che l'hanno preceduta, non è una: essa è divisa in due campi molto differenti, sia per quanto riguarda la loro situazione che dal punto di vista delle loro funzioni sociali: il proletariato (nel senso più ampio del termine) e la borghesia. Questa situazione si accompagna ad un fatto: la lotta delle classi, che può avere carattere mutevole, a volte complesso e inavvertibile, a volte aperto, rapido, chiaramente osservabile.

Questa lotta è spesso mascherata da contrasti fra interessi secondari, da conflitti tra gruppi della stessa classe, da fatti storici complessi e, almeno in apparenza, senza rapporto diretto con l'esistenza delle classi e del loro antagonismo; ma in sostanza questa lotta è sempre diretta verso la trasformazione della società attuale in una società che risponda ai bisogni, alle necessità e alle concezioni di giustizia degli sfruttati e perciò stesso in una società senza classi che liberi l'umanità intera.

La struttura di una società qualsiasi esprime sempre nel suo diritto, nella sua morale, nella sua cultura, la situazione rispettiva delle classi sociali, delle quali alcune sono sfruttate e asservite, mentre altre sono detentrici della proprietà e dell'autorità.

Nella società moderna, economia, politica, diritto, morale, cultura, si basano sull'esistenza di privilegi, dei monopoli di una classe e della violenza organizzata da questa classe per mantenere la sua supremazia.

Il Capitalismo

Molto spesso il sistema del capitalismo è considerato come la sola forma di società dello sfruttamento. Ora, il capitalismo è una forma economica e sociale relativamente recente e le società umane hanno conosciuto ben altre forme di assoggettamento e di sfruttamento, sin dai clan, dagli imperi barbarici, dalle città antiche, dal feudalesimo, dalle città del Rinascimento, ecc. L'analisi della nascita, dello sviluppo, dell'evoluzione del capitalismo è stata l'opera di tutti i teorici socialisti dall'inizio del secolo XIX (Marx ed Engels non hanno fatto altro che sistematizzarla), ma questa analisi non considera del tutto il fenomeno generale dell'oppressione di una classe su un'altra e delle sue origini.

E' inutile stare a disquisire se l'autorità abbia preceduto o abbia seguito la proprietà. Lo stato attuale delle ricerche non permette di stabilirlo in un senso o nell'altro, ma appare evidente che potere economico, politico, religioso, morale, ecc. sono stati strettamente legati sin dall'origine. Ad ogni modo, non si può limitare il ruolo del potere politico al mero ruolo di strumento delle potenze economiche. Così l'analisi del fenomeno capitalismo non è stata accompagnata da un'analisi sufficiente del fenomeno "Stato", perché ci si è concentrati su una parte limitata della storia e solo i teorici anarchici, soprattutto Bakunin e Kropotkin, si sono sforzati di dare tutta la sua importanza a questo fenomeno che troppo spesso veniva limitato allo stato presente nel periodo di crescita del capitalismo.

Oggi, l'evoluzione del capitalismo, passando dal capitalismo classico al capitalismo dei monopoli e poi al capitalismo pianificato o al capitalismo di Stato, crea delle forme sociali nuove di cui le analisi sommarie dello Stato non possono più rendere conto.

Che cosa è il capitalismo?

a) E' una società di classi antagoniste, in cui la classe sfruttatrice detiene e controlla i mezzi di produzione.

b) Nelle società capitaliste, tutti i beni, compresa la forza lavoro del salariato, sono delle merci.

c) La legge suprema del capitalismo, il motivo della produzione dei beni non sta nei bisogni dell'umanità, ma nell'aumento del profitto, cioè nel surplus prodotto dai lavoratori, oltre a ciò che è strettamente necessario per vivere. Questo surplus è pure chiamato plus-valore.

d) L'aumento della produttività del lavoro non è seguito dalla valorizzazione del capitale, il quale è limitato (sottoconsumo). Questa contraddizione, che si esprime con "la caduta tendenziale del saggio di profitto", crea delle crisi periodiche che portano i detentori del capitale ad ogni sorta di espediente: restringimento della produzione, distruzione dei prodotti, disoccupazione, guerre, ecc.

Il capitalismo ha conosciuto una evoluzione:
  1. periodo pre-capitalistico: dalla fine del Medioevo, l'economia feudale vede svilupparsi al suo interno la borghesia mercantile e bancaria.

  2. Capitalismo classico o liberale o privato: con l'individualismo dei detentori del capitale, concorrenza ed espansione (dopo l'accumulazione primitiva del capitale con l'esproprio, lo sfruttamento, la rovina delle popolazioni contadine, ecc, il capitalismo che si stabilisce nell'Europa occidentale ha il mondo da conquistare, delle riserve formidabili di ricchezze e di mercati che apparivano immense). La rivoluzione borghese, eliminando le barriere feudali, aiuta lo sviluppo del nuovo sistema. Sono l'industrializzazione ed il progresso tecnico che hanno dato origine alla forma capitalistica di produzione e al passaggio dalla borghesia commerciale del XV, XVI e XVII secolo alla borghesia capitalista industriale. E continuano a svilupparsi. Durante questo periodo, le crisi sono poco numerose, poco gravi. Lo Stato gioca un ruolo secondario, perché la concorrenza elimina i deboli, è il libero gioco del sistema. E' il periodo del vapore, del carbone, sul piano tecnico; della proprietà privata, del padrone individuale, della concorrenza e del libero scambio, sul piano economico; del parlamentarismo, sul piano politico; dello sfruttamento totale e della miseria più tremenda dei salariati, sul piano sociale.

  3. Capitalismo dei monopoli, di accordi o imperialismo: la produttività aumenta, ma i mercati si restringono e non aumentano nella stessa proporzione. Caduta del tasso di profitto del capitale sovra-accumulato. Gli accordi (trust, cartelli, ecc.) rimpiazzano la concorrenza, le società anonime sostituiscono il padrone individuale, il protezionismo interviene, l'esportazione di capitali si aggiunge a quella delle merci, il credito finanziario gioca un grande ruolo, la fusione del capitale bancario e del capitale industriale forma il capitale finanziario che addomestica lo Stato e fa appello al suo intervento. E' il periodo del petrolio e dell'elettricità sul piano tecnico; degli accordi del protezionismo, delle sovra-accumulazioni di capitali e della tendenza della caduta del tasso di profitto, delle crisi, sul piano economico; delle guerre dell'imperialismo, dello sviluppo dello Stato, sul piano politico. La guerra è una necessità per superare le crisi, le distruzioni allargano il mercato. Sul piano sociale: miseria operaia, ma alcune leggi sociali limitano alcuni aspetti dello sfruttamento.

  4. Capitalismo di Stato: tutto ciò che caratterizza il periodo precedente si accentua. Le guerre non sono più sufficienti per superare le crisi. E' necessaria un'economia di guerra permanente che investa enormi capitali nell'industria bellica, senza aggiungere niente al mercato ristretto delle merci: un profitto apprezzabile è determinato dalle commesse dello Stato. Questo periodo si caratterizza per l'intervento dello Stato nelle più importanti branche economiche e sul mercato del lavoro. Lo Stato diventa capitalismo, cliente, fornitore e sorvegliante del lavoro e della manodopera e di conseguenza si assicura sempre di più il controllo dell'orientamento politico, della cultura, ecc. Il funzionariato si sviluppa, la disciplina e i regolamenti si impongono sul lavoro e giustificano una regolamentazione sempre più severa. Lo sfruttamento e il sistema salariale vengono mantenuti come gli altri caratteri essenziali del capitalismo, ma sotto l'apparenza di forme socialisteggianti (statuti, assistenza sociale, pensioni, ecc.) che segnano l'assoggettamento sempre più grande del proletariato. Le forme del capitalismo di stato sono varie: nazional-socialismo tedesco, nazional-socialismo stalinista, dirigismo sempre più esteso delle "democrazie", ma presentano una forma attenuata (dovuta ad una riserva di plusvalore-mercato ancora esteso nelle colonie). Politicamente come pure economicamente, questo periodo tende ad assumere una forma totalitaria. Lo statalismo si manifesta dunque in forme sia politiche che economiche che culturali: finanziamenti statali, economie di guerra, grandi lavori, servizio del lavoro, campi di concentramento, trasferimento di popolazioni, ideologie giustificatrici dell'ordine totalitario delle cose (ideologie varie: una contraffazione dell'ideologia marxista-leninista in URSS; la razza per il nazional-socialismo di Hitler, la Roma antica per il fascismo di Mussolini, ecc.).
Lo Stato

Se il capitalismo, malgrado le sue trasformazioni ed i suoi adattamenti, conserva dei caratteri permanenti quali plus-valore, crisi e contraddizioni, lo Stato non può essere considerato più come un'organizzazione pubblica di repressione in mano alla classe dirigente, l'agente di affari della borghesia, il gendarme del capitale.

Un esame delle forme di Stato anteriori al periodo di crescita del capitalismo e delle forme di Stato attuali, ci porta a considerare che lo Stato ha un valore diverso da quello di puro strumento.

Lo Stato medioevale, lo Stato delle monarchie assolute d'Europa, lo Stato faraonico, ecc. sono stati delle realtà di per sè: se si può dire, essi hanno realizzato lo Stato-classe dominante.

E lo Stato della fase imperialista del capitalismo, lo Stato attuale, tende da sovrastruttura a diventare esso stesso "struttura".

Per gli ideologi della borghesia, lo Stato è l'organo regolatore della società moderna. E' vero, ma sulla base di un ordine che è l'assoggettamento della maggioranza ad una minoranza, esso è dunque la violenza organizzata della borghesia contro i lavoratori, esso è l'apparato della classe dominante, ma insieme a questo carattere strumentale tende ad avere un carattere funzionale, diventando esso stesso la classe dominante organizzata; esso tende a superare le divisioni tra i gruppi dirigenti in politica ed n economia, tende a fondere in un unico blocco le forze che detengono il potere politico e il potere economico, i diversi settori della borghesia, sia per accrescere il suo peso repressivo all'interno, sia per aumentare la sua capacità espansiva all'estero. Esso va verso l'unità del politico e dell'economico, estendendo la sua egemonia su tutte le attività, integrando i sindacati operai, ecc., trasformando il salariato propriamente detto per i tempi moderni, sempre completamente assoggettato, ma con un minimo di garanzie (indennità, assistenza sociale, ecc.). Esso non è più uno strumento, ma una potenza di per sé.

In questo stadio, in corso di realizzazione in tutti i paesi, e anche in USA, tentato dal Nazismo, quasi perfettamente raggiunto in URSS, ci si può anche domandare se conviene ancora parlare di capitalismo o se questo grado di sviluppo della fase imperialista del capitalismo non debba essere considerato come una forma nuova di società dello sfruttamento, che è già cosa diversa dal capitalismo. La differenza non sarà più allora quantitativa, ma qualitativa: non si tratterà più di un grado di evoluzione del capitalismo, ma di qualcosa di diverso, di realmente nuovo e differente. Ma questa questione è soprattutto una questione di valutazione e di terminologia che può sembrare prematura e senza una portata reale attualmente.

Ci basta esprimere così la forma di sfruttamento e di asservimento verso la quale tende la società borghese e lo Stato come apparato di classe e come organizzazione della classe, sia strumentale che funzionale, sovrastruttura e struttura, tende ad unificare i poteri, tutte le forme di dominio della borghesia sul proletariato.

2. I caratteri del comunismo libertario

Abbiamo tentato di riassumere il più chiaramente possibile gli aspetti della società borghese che la Rivoluzione ha come scopo di eliminare facendo nascere una nuova società: la società comunista anarchica. Prima di esaminare come si può individuare il fatto rivoluzionario, è necessario precisare i caratteri essenziali della società comunista libertaria.

Comunismo: dalla fase inferiore alla fase superiore

Non si potrà mai definire meglio la società comunista che ripetendo la vecchia formula:

"Da ciascuno secondo i suoi mezzi, a ciascuno secondo i suoi bisogni".


All'inizio essa afferma la subordinazione totale dell'economia ai bisogni dello sviluppo umano nell'abbondanza dei beni, la diminuzione del lavoro sociale e la redistribuzione secondo le forze e le capacità reali di ciascuno in questo lavoro. La formula quindi esprime la possibilità di sviluppo totale dell'uomo.

In seguito questa formula suppone la scomparsa delle classi, il possesso e lo sfruttamento collettivo dei mezzi di produzione, perché solo questo sfruttamento da parte della comunità può permettere una ripartizione secondo i bisogni.

Ma il comunismo perfetto della formula "a ciascuno secondo i suoi bisogni" presuppone non solamente la proprietà collettiva (gestita dai consigli dei lavoratori, o i sindacati, o le comuni), ma ugualmente uno sviluppo al massimo della produzione, cioè l'abbondanza. Pertanto, qualora si verifichi il fatto rivoluzionario e le condizioni non permettano questo stadio superiore del comunismo e la situazione di ristrettezza significhi la persistenza dell'economico sull'uomo, da cui una certa limitazione, è certo che l'applicazione del comunismo non è più quella del principio "a ciascuno secondo i suoi bisogni", ma soltanto l'uguaglianza della remunerazione o delle condizioni. Il che porta ad un razionamento egualitario o ancora ad una ripartizione per mezzo di simboli monetari a validità limitata e che ha come unico scopo quello di ripartire i prodotti che non sono né abbastanza rari per essere razionati in maniera rigida, né così abbondanti per essere dati "a sazietà"; questo sistema monetario permette al consumatore di decidere esso stesso in quale maniera spendere la sua remunerazione. Si è potuto anche tentare di attenersi alla formula "a ciascuno secondo il suo lavoro", tenendo conto del ritardo della psicologia di certe categorie attaccate alle lezioni di gerarchia, considerando la necessità di procedere per differenziazioni dei tassi dei salari o dando dei vantaggi come la riduzione del tempo di lavoro per mantenere e sviluppare la produzione in certe attività sgradite o poco piacevoli o per ottenere il massimo sforzo produttivo o ancora per ottenere degli spostamenti di mano d'opera. Ma l'importanza di queste differenziazioni sarebbe minima nella società comunista, anche nella sua fase inferiore (che alcuni chiamano socialismo), se vi è la tendenza verso un egualitarismo tanto grande quanto possibile, verso un'equivalenza di condizioni.

Comunismo libertario

Una società in cui la proprietà collettiva ed i principi egualitari sono realizzati non può essere una società in cui possa sussistere lo sfruttamento economico o possa esistere un regime di classe. Essa ne è giustamente la negazione.

E ciò è vero anche per la fase inferiore del comunismo che, se manifesta un certo controllo dell'economia, non giustifica per niente l'esistenza dello sfruttamento. Altrimenti, la rivoluzione che parte quasi sempre da una situazione di penuria, sarebbe automaticamente fallita. La rivoluzione comunista libertaria non realizza all'inizio una società perfetta e altamente sviluppata, ma distrugge le basi dello sfruttamento e della dominazione. E' in questo senso che Volin parlava di "rivoluzione immediata ma progressiva".

Ma c'è l'altro problema: quello dello Stato, del tipo di organizzazione politica, economica e sociale. Certamente, le scuole marxiste-leniniste prevedono esse stesse la scomparsa dello Stato nella fase posteriore del comunismo, ma considerano lo Stato come una necessità durante la fase anteriore.

Questo Stato definito "operaio" e "proletario" è considerato come il controllo organizzato reso necessario dall'insufficienza dello sviluppo economico, dalla mancanza dello sviluppo delle capacità umane e, perlomeno in una prima fase, dalla lotta contro i resti delle ex-classi dominanti vinte dalla rivoluzione, o più esattamente per la difesa del territorio rivoluzionario all'interno e all'esterno.
Quale può essere, secondo noi, la forma di gestione economica della società comunista?

Senza ombra di contestazione, la gestione operaia, la gestione dell'insieme dei produttori. Ora, noi abbiamo visto che sempre di più la società dello sfruttamento realizzava l'unificazione del potere, che le condizioni di sfruttamento erano a mano a mano la proprietà privata, il mercato, la concorrenza, ecc., e che anche lo sfruttamento economico, la condizione politica e la mistificazione ideologica facevano corpo, essendo la gestione della produzione la base essenziale del potere e la linea di divisione tra gli sfruttatori e gli sfruttati. In queste condizioni, l'essenziale dell'atto rivoluzionario, l'abolizione dello sfruttamento, si realizza con la gestione operaia e questa gestione rappresenta il sistema di sostituzione di tutti i poteri. E' l'insieme di tutti i produttori che gestisce, organizza e realizza l'auto-amministrazione, l'autogoverno, la vera democrazia, libera l'uguaglianza economica, la soppressione dei privilegi, delle minoranze dirigenti e sfruttatrici; che tiene conto delle necessità economiche, delle necessità della difesa della rivoluzione. L'amministrazione delle cose si sostituisce al governo degli uomini.

L'abolizione della distinzione tra dirigenti ed esecutori dall'economia, qualora si accompagnasse ad una politica di mantenimento di questa opposizione sotto la forma della dittatura di un partito della minoranza, sarebbe senza domani e creerebbe un conflitto tra produttori e burocrati politici. La gestione operaia deve dunque realizzare la soppressione di ogni potere di una minoranza e quindi anche dello Stato. Non si tratta più di dominazione, di egemonia di una classe, ma di gestione ed amministrazione sia sul piano politico che sul piano economico da parte degli organismi di massa, delle comuni, del proletariato armato. C'è il potere diretto del popolo, non è uno Stato. E' ciò che certi chiamano dittatura del proletariato: la denominazione è equivoca ma non ha più nulla a che vedere con la dittatura di un partito o di una burocrazia. E' semplicemente la vera democrazia rivoluzionaria.

Comunismo libertario e umanesimo

Così il comunismo anarchico o libertario, realizzando la società della completa realizzazione dell'uomo, dell'uomo umano, dell'uomo nella sua totalità, se così si può dire, apre un'epoca di progresso permanente, di trasformazione graduale, di transizione.

Esso crea allora un umanesimo fatto scopo, un umanesimo la cui ideologia è nata nell'ambito di una società di classe nel corso stesso dello sviluppo di classe, un umanesimo che non ha niente a che vedere con le mistificazioni sull'uomo astratto che i liberal-borghesi cercano di mostrarci all'interno della loro società di classe.

E così la rivoluzione basata sulla capacità rivoluzionaria delle masse e del proletariato, affrancando la classe sfruttata affranca tutta l'umanità.

Così la negazione all'inizio di un umanesimo interclassista ci porta alla lotta per una società comunista libertaria il cui processo stesso ed il cui scopo non sono altro che lo sviluppo dell'uomo.

3. La rivoluzione: il problema del potere e dello Stato

Dopo aver esaminato a grandi linee le forme in cui si esprime la potenza della classe dominante e dopo aver fissato i tratti essenziali del comunismo libertario, ci resta da precisare come noi vediamo il passaggio rivoluzionario. Noi tocchiamo un punto essenziale dell'anarchismo e qui sta la differenza più netta con tutte le altre correnti socialiste.

Che cos'è la rivoluzione

La rivoluzione, cioè il passaggio dalla società di classe alla società comunista libertaria senza classi, deve essere considerata come un lento processo di trasformazione o come un'insurrezione?

Le basi della società comunista si formano all'interno della società dello sfruttamento, e le nuove condizioni tecnico-economiche, dei rapporti di classe, le nuove idee entrando in conflitto con le vecchie istituzioni, determinano una crisi che invoca un cambiamento brusco e decisivo, apportano un cambiamento da lungo tempo preparato in seno alla vecchia società. La rivoluzione è il momento in cui nasce la nuova società distruggendo i quadri dell'antico: capitalismo di Stato, ideologia borghese. E' un passaggio reale e concreto tra due mondi. La rivoluzione non può quindi avvenire che nelle condizioni oggettive della crisi finale del regime di classe.
Questa concezione quindi non ha nulla a che vedere con la concezione romantica dell'insurrezione, del cambiamento radicale attuato "dall'oggi al domani" senza preparazione. Non ha niente a che vedere anche con la concezione gradualista puramente evoluzionista dei riformisti o dei partigiani della rivoluzione-processo.

La nostra concezione della rivoluzione, ugualmente lontana dall'insurrezionalismo e dal gradualismo, può dunque caratterizzarsi attraverso la nozione dell'atto rivoluzionario a lungo preparato nell'ambito della società borghese, ma ben determinato nel tempo: all'inizio per l'intervento insurrezionale del proletariato contro la borghesia e la conclusione con la presa e la gestione dei mezzi di produzione e di scambio da parte delle organizzazioni di massa. Ed è questa realizzazione dell'atto rivoluzionario che traccia una linea di demarcazione netta tra la vecchia società e la nuova.

La rivoluzione distrugge dunque il potere economico e politico della borghesia. Ciò significa che la rivoluzione non si limita alla soppressione fisica della vecchia dirigenza o alla liquidazione delle istituzioni giuridiche dello Stato: le leggi e le abitudini dello Stato, i processi e le prerogative gerarchiche, la tradizione e il culto dello Stato come dato psicologico collettivo.

Il periodo di transizione

Ciò detto, che può significare l'espressione tanto declamata del "periodo di transizione", se spesso considerata come legata alla nozione di rivoluzione? Se è considerato come il passaggio dalla società di classe alla società senza classi, esso si confonde con l'atto rivoluzionario. Se esso è il passaggio dalla fase inferiore alla fase superiore del comunismo, allora l'espressione è inesatta perché il periodo post-rivoluzionario è tutto un lento e continuo processo, una trasformazione senza scosse sociali e la società comunista continuerà ad evolversi.

Tutto ciò che si può dire è quel che noi abbiamo già precisato a proposito del comunismo libertario: l'atto rivoluzionario determina una trasformazione immediata, nel senso che le basi della società sono radicalmente cambiate, ma progressiva nel senso che il comunismo è un continuo sviluppo.

In verità, per i partiti comunisti e socialisti statali, il periodo di transizione rappresenta una società che rompe con l'antico ordine delle cose ma conservando degli elementi di sopravvivenza del sistema capitalistico e statale. Esso è dunque la negazione della vera rivoluzione, conservando degli elementi del sistema di sfruttamento la cui tendenza è quella di riaffermarsi e di svilupparsi.

La dittatura del proletariato

La formula di "dittatura del proletariato" è stata usata nei modi più differenti. Solo per questo fatto essa deve essere condannata, perché sono troppi i germi della confusione. Nello stesso Marx essa indica ugualmente la dittatura centralizzata del partito che pretende di rappresentare il proletariato così come pure la concezione federalista nella Comune.

Può essa significare l'esercizio del potere politico della classe operaia vittoriosa? No, perché l'esercizio del potere politico nel senso classico di potere politico, non può che esercitarsi tra un gruppo ristretto che esercita un monopolio, una supremazia, separandosi dalla classe entro più parti ed opprimendola. Così, volendo servirsi dell'apparato statale, si riduce la dittatura del proletariato ad una dittatura del partito sulle masse.

Ma se si intende per dittatura del proletariato l'esercizio collettivo e diretto del potere politico da parte della classe, significa che il potere politico scompare, in quanto i suoi caratteri distintivi sono la supremazia, l'esclusivismo, il monopolio. Non è più l'esercizio del potere politico o la sua conquista, ma ne è la liquidazione!

Se per dittatura si intende il dominio di una minoranza sulla maggioranza, non è più questione di dare il potere al proletariato, ma ad un partito in quanto gruppo politico distinto. Se si intende per dittatura il dominio della maggioranza sulla minoranza, dominio del proletariato vittorioso sui resti della borghesia distrutta come classe, allora l'instaurazione della dittatura non ha altro senso che la necessità di organizzare efficacemente la propria organizzazione sociale e di istituire una vigilanza generalizzata.

Ma allora l'espressione è impropria, usata male e causa di malintesi.

Se si vuole intendere per dittatura del proletariato la supremazia della classe operaia sugli altri strati della classe sfruttata (piccoli proprietari, proprietari poveri, artigiani, contadini, ecc.) l'espressione non tiene affatto conto della realtà e che questa realtà non ha nulla a che vedere con i rapporti meccanici tra governanti e governati che implica il concetto di dittatura.

Parlare di dittatura del proletariato è esprimere un cambiamento meccanico della situazione tra la borghesia ed il proletariato. Dunque, se la classe borghese tende attraverso il potere a conservare la sua natura di classe, ad identificarsi nello Stato, ad essere separata dalla società in generale, non è la stessa cosa della classe subalterna che tende a disfarsi della sua natura di classe ed a fondersi in una società senza classi. Se la dominazione di classe e lo Stato rappresentano la potenza costituita e codificata di un gruppo che opprime i gruppi subalterni, non tengono per niente conto della pressione violenta esercitata direttamente da parte del proletariato.

I termini "dominazione", "dittatura", "Stato" sono poco adeguati quanto l'espressione "presa del potere" per indicare l'atto rivoluzionario per la presa delle fabbriche da parte dei lavoratori.

Noi rigettiamo come impropria e portatrice di confusione l'espressione di "dittatura del proletariato", "presa del potere politico", "stato operaio", "stato socialista", "Stato proletario".

Non ci resta che esaminare sotto quali forme noi vediamo la risoluzione dei problemi della lotta posti dalla rivoluzione e dalla difesa della rivoluzione.

Il potere operaio diretto

Respingendo la nozione di Stato che implica l'esistenza e la dominazione di una classe sfruttatrice che tende a perpetuarsi, respingendo la nozione di dittatura che implica dei rapporti meccanici dei governanti sui governati, noi ammettiamo tuttavia per l'azione diretta rivoluzionaria, la necessità di un coordinamento. E' necessario impadronirsi dei mezzi di produzione e di scambio, dei centri di amministrazione, bisogna combattere le forze della borghesia, difendere la rivoluzione contro i settori controrivoluzionari, contro gli esitanti, contro gli strati sfruttati arretrati (alcune categorie per esempio).

Si tratta dunque certamente dell'esercizio di un potere, ma allora è il potere della maggioranza, del proletariato in azione, del popolo in armi, organizzandosi efficacemente per l'attacco, la difesa, istituendo una vigilanza generalizzata. L'esperienza della rivoluzione russa, della makhnovicina, della Spagna del '36 sono qui per testimoniare. Noi non possiamo fare a meno di tener presente il punto di vista di Camillo Berneri, che, nel pieno della rivoluzione spagnola e rifiutando la concezione bolscevica dello Stato, scriveva:

"Gli anarchici ammettono l'uso del potere diretto del proletariato, ma essi vedono l'organo di questo potere come formato dall'insieme dei sistemi di gestione comunista – organizzazioni cooperative, istituzioni comunali, regionali e nazionali – liberamente costituite al di fuori e contro il monopolio dei partiti politici e cercando di ridurre al minimo la centralizzazione amministrativa."

Noi opponiamo, quindi, al concetto di Stato in cui il potere è esercitato da un gruppo specializzato ed isolato dalle masse, la nozione del potere operaio diretto in cui i responsabili e i delegati eletti e controllati, revocabili in ogni momento e retribuiti allo stesso modo dei lavoratori, sostituiscono la burocrazia specializzata, gerarchica e privilegiata; in cui le milizie controllate dagli organismi di gestione (soviet, sindacati, comuni, ecc.), senza privilegi per i tecnici militari, realizzando il popolo in armi, rimpiazzano l'armata separata dal corpo sociale e sottomessa all'arbitrio del potere dello Stato o del governo, in cui le giurie popolari, che hanno il compito di giudicare i conflitti nati a proposito dei contratti e degli impegni presi, rimpiazzano la repressione giudiziaria della borghesia.

La difesa della rivoluzione

Per quel che concerne la difesa della rivoluzione, dobbiamo precisare che la nostra concezione teorica della rivoluzione è quella di un fenomeno internazionale che distrugge quindi ogni base del contrattacco della borghesia. E' quando l'organizzazione internazionale del capitalismo ha finito tutte le possibilità di sopravvivenza, è solo quando ha raggiunto la fase culminante della sua crisi, che si ritrovano riunite le condizioni ottime per una rivoluzione internazionale vittoriosa. Il problema della sua difesa non si pone più allora che sotto forma del problema della scomparsa completa della borghesia. Decapitata la sua potenza economica, amputata del suo potere politico, essa non esiste più come classe. Ma, pur sconfitta, i suoi elementi sono tenuti sotto controllo dalle organizzazioni proletarie in armi, assorbiti poi in una società che tende verso il più alto grado di omogeneità. E questo lavoro deve essere assicurato direttamente senza il ricorso di un corpo speciale burocratico.

Il problema della delinquenza, durante il periodo rivoluzionario, è vicino a quello della difesa della rivoluzione. La scomparsa dei diritti borghesi e dei metodi giudiziari e penitenziari della società di classe non può far dimenticare che rimangono degli asociali (anche se poco numerosi di fronte al numero di prigionieri nella società borghese, prodotti nel maggior dei casi dalle condizioni sociali di vita: ingiustizia sociale, miseria, sfruttamento) e che si pone il problema di qualche elemento della borghesia completamente irrecuperabile. Gli organi del potere diretto delle masse che noi abbiamo definito precedentemente sono obbligati a controllarli e ad impedire ad essi di nuocere.

Non si può, con il pretesto della libertà, lasciare libero e recidivo un omicida, uno squilibrato pericoloso o un sabotatore. Ma il metterli in prigione da parte dei servizi popolari di sicurezza non ha molto in comune con il regime penitenziario avvilente della società di classe. L'individuo privato della libertà deve essere trattato più sotto l'aspetto della rieducazione che sotto l'aspetto giudiziario, aspettando che egli possa essere riammesso, senza danno, nella società. Ma la rivoluzione non può realizzarsi fatalmente dappertutto nello stesso momento; ci possono essere dei casi reali di rivoluzione successivi ma che non conducono a quella rivoluzione generale che essi trasmettono all'esterno se il contagio rivoluzionario funziona e se almeno il proletariato combatte internazionalmente per la difesa e l'estensione di questi momenti rivoluzionari, all'inizio limitati.

Allora, a fianco della difesa interna della rivoluzione, diventa necessaria la difesa esterna, ma questa non è possibile che sulla base del popolo in armi organizzato nelle sue milizie. con l'appoggio del proletariato e con la possibilità dell'espansione della fase rivoluzionaria. La rivoluzione muore se viene lasciata circoscritta e con il pretesto della sua difesa essa cade nella restaurazione dello Stato e dunque nella società di classe.

Ma la migliore difesa della nuova società risiede nell'affermazione dei suoi caratteri rivoluzionari, soprattutto perché crea rapidamente le condizioni nelle quali nessun tentativo di restaurazione borghese trovi delle basi sociali. La totale affermazione dei suoi caratteri socialisti all'interno è la migliore arma del territorio rivoluzionario, anche perché crea l'energia e l'entusiasmo all'interno, il contagio e la solidarietà all'esterno. Questo fatto fu uno degli errori più negativi della rivoluzione spagnola, che mise in sordina le sue realizzazioni per consacrarsi soprattutto alle questioni militari della difesa.

Potere rivoluzionario e libertà

La lotta rivoluzionaria e il consolidamento della trasformazione rivoluzionaria pongono la questione della libertà delle tendenze politiche che mirano a mantenere ed a restaurare lo sfruttamento. Questo è uno degli aspetti del potere diretto delle masse e della difesa della rivoluzione.

Non può trattarsi di libertà propriamente detta che (esistita fino ad ora allo stato di aspirazione) si realizza giustamente per mezzo della rivoluzione: soppressione dello sfruttamento, dell'alienazione, gestione per mezzo di tutti, dunque partecipazione attiva alla vita sociale, quindi democrazia reale per tutti. Non si tratta neanche del diritto per tutte le correnti partigiane della società senza classi (e dunque senza Stato) di esprimere le loro soluzioni particolari e le loro divergenze. Tutto ciò è evidente.

Ma non è più lo stesso, qualora si tratti di correnti e di organizzazioni che si oppongono, più o meno apertamente, alla gestione operaia e all'esercizio del potere per mezzo degli organismi di massa. Si può trattare sia di correnti burocratiche, pseudo-socialiste, che di correnti borghesi in rotta.

Bisogna distinguere. Prima, durante il periodo violento della lotta, bisogna sconfiggere violentemente le formazioni e le tendenze che difendono o vogliono restaurare la società dello sfruttamento. E non si può permettere al nemico di organizzarsi abilmente o di demoralizzare o di spiare. Questa sarebbe la negazione della lotta, sarebbe l'abbandono. Sia Makhno che i libertari spagnoli si sono trovati di fronte a questi problemi e li hanno risolti con la soppressione della propaganda del nemico. Ma nei casi in cui l'espressione delle ideologie reazionarie non può avere delle conseguenze per la riuscita della Rivoluzione, per esempio dopo il consolidamento delle realizzazioni rivoluzionarie, queste ideologie possono esprimersi se esse ne vedono ancora l'interesse e se ne hanno ancora la forza. Esse non sono più allora che un oggetto di curiosità e l'appoggio di massa alla rivoluzione toglie loro ogni nocività. Se esse si esprimono soltanto sul terreno ideologico, non possono che essere combattute sul piano ideologico e non con la repressione. La totale libertà di espressione, in seno alle masse coscienti on può essere che un fattore di coscienza.

Senza dubbio, la distinzione fra una espressione reazionaria ideologica ed una attività reazionaria caratterizzata è spesso difficile da stabilire. Makhno si trovò davanti un caso delicato di questo genere a Kharkov a proposito della stampa dei Bianchi.

La distinzione deve dunque essere esaminata caso per caso, pena l'involuzione verso la burocrazia o il capovolgimento dei rapporti di forza a favore del nemico.

Resta da precisare che il giudizio e la decisione spettano sempre, su queste questioni come sulle altre, agli organismi popolari, al proletariato in armi.

Ed è in questo senso che la libertà è fondamentale, quella libertà per cui si la rivoluzione si è fatta, è mantenuta e protette.

Il ruolo dell'organizzazione anarchica e ruolo delle masse

La concezione della Rivoluzione che abbiamo fin qui sviluppato sottintende un certo numero di condizioni storiche: crisi acuta della vecchia società da una parte, e, dall'altra, presenza di un movimento di massa cosciente e di una minoranza agente bene organizzata e bene orientata.

E' la stessa evoluzione sociale che permette lo sviluppo della coscienza e delle capacità del proletariato, l'organizzazione dei suoi stati più avanzati e lo sviluppo dell'organizzazione rivoluzionaria. Ma, questa organizzazione rivoluzionaria sviluppa la sua azione sull'insieme delle masse, andando a sviluppare la loro capacità di auto-organizzazione. Abbiamo visto, a proposito dei rapporti fra l'organizzazione rivoluzionaria e le masse, che nel periodo pre-rivoluzionario, l'organizzazione specifica non può che proporre dei fini e dei mezzi e non può farli accettare che attraverso la lotta politica e l'esempio.

Durante il periodo rivoluzionario, essa deve operare allo stesso modo, pena la degenerazione burocratica e la trasformazione dell'organizzazione anarchica in corpo specializzato, in potere politico distinto dalle masse, in Stato.

Senza dubbio, l'organizzazione d'avanguardia, politica, la minoranza agente, può farsi carico nel corso della rivoluzione di compiti particolari (per esempio la liquidazione di forze nemiche), ma essa non può in generale che essere la coscienza del proletariato. Ed essa deve alla fine essere riassorbita, dissolversi nella società man mano che, da una parte si compie il consolidamento della società senza classi e la sua evoluzione dalla fase inferiore verso la fase superiore del comunismo, e dall'altra le masse nella loro totalità hanno sviluppato tutta la coscienza necessaria.

Sviluppo della capacità d'auto-governo delle masse e vigilanza rivoluzionaria: questi devono essere i compiti dell'organizzazione di specifico una volta attuata la rivoluzione. Le sorti della rivoluzione dipendono in gran parte dall'attitudine dell'organizzazione di specifico, dal suo modo di concepire il proprio ruolo, in quanto la vittoria della rivoluzione non è predeterminata: le masse possono desistere e l'organizzazione della minoranza rivoluzionaria può venir meno ai suoi compiti di vigilanza, lasciando ristabilire le basi della restaurazione borghese o della dittatura burocratica o ancora trasformarsi essa stessa in potere burocratico. A nulla servirebbe nascondersi questi pericoli o, per evitarli, rifiutare l'azione organizzata. E' con molta lucidità che noi dobbiamo combattere ed è nella misura in cui noi saremo lucidi e vigilanti che l'organizzazione anarchica potrà compiere totalmente il suo compito storico.

La morale comunista libertaria

La concezione anarchica rivoluzionaria, esprimendo degli obiettivi da raggiungere e nel precisare la natura del ruolo dell'organizzazione delle avanguardie nel rapporto con le masse, riflette anche un certo numero di regole di condotta. E' dunque necessario precisare ciò che noi intendiamo per "morale".

Noi combattiamo le morali.

Le morali di ogni società riflettono in una certa misura le condizioni di esistenza, il livello di sviluppo di questa società e, di conseguenza, si esprimono in regole molto severe, non ammettendo alcun errore in alcun senso (il superamento, la volontà di modificare queste regole è un crimine). Allo stesso modo le morali (che esprimono una certa necessità nel quadro della vita sociale) tendono all'immobilità.

Esse non esprimono, dunque, semplicemente una necessità pratica media, in quanto entrano in contraddizione con le nuove condizioni d'esistenza che possono prodursi. D'altronde, esse sono affette da un carattere religioso, teologico o metafisico, e presentano le loro regole come espressione di un imperativo soprannaturale; le azioni conformi o non alle regole si gloriano di un carattere mistico: virtù o peccato; e la rassegnazione, che in realtà non dovrebbe essere che il riconoscimento del limite dell'uomo davanti a certi fatti, diventa la prima delle virtù e può spingere anche alla ricerca della sofferenza, divenendo la virtù per eccellenza.

Il cristianesimo è, da questo punto di vista, una delle morali più odiose. La morale, dunque, non si codifica solo sotto forma di sanzione esteriore, ma è ancorata negli individui sotto forma di "coscienza morale", essendo questa coscienza morale ottenuta e mantenuta soprattutto grazie al carattere religioso che impregna la morale ed essendo ance affetta da un carattere religioso soprannaturale. Essa diviene così estranea alla semplice traduzione nella coscienza dell'uomo delle necessità della vita sociale.

Infine e soprattutto, le morali, anche quando non esprimono apertamente la divisione della società in classi o caste, sono utilizzate dalle categorie privilegiate per giustificare e assicurare il loro dominio. Come il diritto e la religione (religione, diritto, morale non sono che espressioni, in campi vicini, della stessa realtà sociale), la morale sanziona le condizioni e relazioni esistenti nel senso del dominio e dello sfruttamento.

Le morali esprimono l'alienazione dell'uomo nelle società di sfruttamento, come le esprimono le ideologie, i codici, le religioni, ecc.; ed essendo caratterizzate dall'immobilità, dalla mistificazione, dalla rassegnazione, dalla giustificazione e mantenimento dei privilegi della classi, si concepisce come gli anarchici abbiano portato una gran parte dei loro sforzi a denunciare i veri caratteri delle morali.

Abbiamo noi una morale?

Si può spesso sottolineare che le morali possono evolversi, modificarsi; che una morale può essere sostituita da un'altra nel seno stesso della società dello sfruttamento. Ci sono state delle sfumature, degli adattamenti o delle variazioni legate alle condizioni d'esistenza, ma in realtà queste salvaguardano gli stessi valori: rassegnazione e rispetto della proprietà, per esempio. Non è meno vero che questi adattamenti sono stati combattuti e che i loro promotori spesso sono stati perseguitati (Socrate, Cristo) e che la morale ha tendenza all'immobilità.

Non sembra, in ogni caso, che gli asserviti abbiano potuto produrre nelle morali dei valori che siano loro propri.

Ma ciò che importa è sapere se gli sfruttati e i rivoluzionari che esprimono le loro aspirazioni possono avere dei valori, una morale propria.

Se noi non vogliamo accettare la morale della società nella quale viviamo, se rifiutiamo questa morale perché essa riconosce, per mantenerlo, uno stato sociale di sfruttamento e di dominio e perché è impregnata d'astrattismo e di ideali metafisici, su cosa possiamo noi basare una nostra morale? C'è una soluzione a questa contraddizione apparente: è che la riflessione, la scienza sociale ci permettono di intravedere un divenire che sia la possibilità per l'uomo di una totale emancipazione, e questo divenire non è d'altronde altro che le aspirazioni generali degli oppressi, espresse attraverso il vero socialismo, attraverso il comunismo libertario. Il nostro fine è dunque rivoluzionario ed è il nostro ideale, il nostro imperativo. E' sì un ideale, un imperativo sul quale si può fondare una morale, ma è un ideale che si fonda sul reale e non su una rivelazione religiosa o metafisica. Questo ideale è un umanesimo, ma è un umanesimo basato su una trasformazione rivoluzionaria della società e non un umanesimo sentimentale fondato sul nulla e che camuffa la realtà della lotta sociale.

La nostra morale

Quali sono i valori morali che manifestano nel proletariato questo ideale?

Questa morale si esprime per mezzo di regole, di precetti?

E' evidente che non si può agire e giudicare in funzione di nozioni di "bene" e "male", in funzione delle morali che noi combattiamo, non più di quanto non possiamo lasciarci trascinare nelle futili discussioni sui termini, sulla questione di sapere se la causa dell'azione deve chiamarsi "egoismo" o "altruismo".

Ma fra gli atti che sono assicurati normalmente dai giochi affettivi e dai sentimenti (l'amore materno, la simpatia, la salvaguardia di un nostro simile in pericolo, ecc.) e gli atti che rilevano dei contratti, dei patti scritti o costumi, dunque del diritto, vi è tutta una gamma di relazioni sociali che rilevano della concezioni e una coscienza morale.

Qual è la garanzia del rispetto sincero delle clausole di un contratto? Quale deve essere l'attitudine di un uomo nei confronti dei suoi avversari? Quali armi gli sono vietate usare? Non c'è che una morale che possa guidare, che possa assegnare dei limiti, che possa evitare di ricorrere senza tregua alle contestazioni e alle giurie.

Noi scopriamo nella pratica rivoluzionaria, nella vita del proletariato cosciente, dei valori come la solidarietà, il coraggio, il senso di responsabilità, la lucidità, la tenacia, il federalismo o democrazia reale delle organizzazioni operaie e anarchiche che realizzano contemporaneamente la disciplina e lo spirito d'iniziativa, il rispetto della democrazia rivoluzionaria, cioè la possibilità per tutte le correnti sinceramente legate alla creazione della società comunista, di esprimersi, di criticare e così di perfezionare la teoria e la pratica rivoluzionaria.

La base rivoluzionaria che noi abbiamo fissato come imperativo ci dispensa evidentemente da ogni morale di fronte al nemico, di fronte alla borghesia che tenta di far pesare sui rivoluzionari, per la sua difesa, i divieti della sua morale. E' evidente che in questo campo solo il fine detta la nostra condotta. Ciò significa che essendo il fine riconosciuto, scientificamente stabilito, i mezzi non sono altro che gli strumenti e di conseguenza possono essere considerati tali solo quando sono compatibili con lo scopo. Ciò non vuol dire qualsiasi mezzo, oppure che i mezzi non si devono "giustificare". Bisogna quindi respingere la formula equivoca:"il fine giustifica i mezzi" e dire più semplicemente:"i mezzi non esistono, non sono scelti che in vista del fine col quale essi sono legati, compatibili, e non devono essere giustificati davanti all'avversario e in funzione della sua morale".

Ma per contro, questi mezzi rientrano necessariamente nel quadro della nostra morale, poiché essi sono adeguati all'ideale e questo ideale, il comunismo libertario, suppone la Rivoluzione che a sua volta suppone una presa di coscienza delle masse. Per esempio, essi implicano la solidarietà, il coraggio, il senso di responsabilità, ecc., che abbiamo citato prima come "virtù della nostra morale".

C'è un punto sul quale bisogna soffermarsi, un punto della nostra morale che si potrebbe ricollegare al senso di solidarietà, ma che, in realtà, è il carattere stesso di tutta la nostra morale: la verità. Come è normale ingannare il nostro avversario, la borghesia, che usa ogni furberia, così è necessario dire la verità non solo fra compagni, ma anche alle masse.

Come potremmo fare altrimenti, poiché è necessario prima di tutto accrescere la loro coscienza, quindi le loro conoscenze e i loro giudizi? Quelli che hanno voluto procedere altrimenti non sono riusciti che ad avvilire e scoraggiare le masse, facendo perder loro tutto il senso della verità, dell'analisi, della critica.

Il cinismo immorale non ha nulla di proletario o di rivoluzionario. E' l'espressione di elementi decadenti della borghesia che constatano il vuoto della morale ufficiale, ma sono incapaci di trovare in un ambiente vivo una morale sana.

L'immoralista è in apparenza libero in tutti i suoi movimenti. Ma egli non sa più dove va ed inganna se stesso dopo aver ingannato gli altri.

Non basta avere uno scopo, c'è anche bisogno di una bussola.

L'elaborazione di una morale, in senso al movimento comunista libertario, consolida la teoria rivoluzionaria e apporta un contributo importante alla preparazione di una nuova cultura, negando la cultura borghese.

 
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